Tra il 1965 e il 1975 il signore assoluto delle due ruote è Giacomo Agostini, dominatore sulla sua Mv Agusta delle categorie 350 e 500, con grande dispetto delle case giapponesi che puntavano proprio su quelle cilindrate, le più potenti e dunque le più popolari, per garantirsi un cospicuo ritorno pubblicitario. Per raggiungere il titolo delle 500, dopo 23 anni di vano inseguimento, avrebbero dovuto aspettare che proprio Agostini si spostasse alla Yamaha e centrasse nel 1975 il suo ultimo sigillo iridato, il quindicesimo, record mai eguagliato da pilota alcuno, e che fa il pari con quello di 311 corse vinte.
Il campione bresciano non era uno che passava inosservato, prima di tutto per la sua bellezza, impreziosita da una dentatura perlacea incorniciata in un sorriso da passaporto, forse perfino femminea in quel tracciato rigorosamente ortodosso dei lineamenti; la statura non era quella di un corazziere, cosicché il vanesio «Ago» proponeva a biografi e intervistatori di arrotondarla per eccesso sino al metro e settanta. Si concedeva qualche vezzo divistico, tipo arrivare agli ultimi secondi sulla pista della gara, unico a lasciare spingere la moto sino alla linea di partenza dai meccanici anziché portarcela da solo. Qualche volta sconfinava nel capriccio collerico e prepotente: a Francorchamps, nel 1969, dopo che un commissario di gara gli aveva vietato di accedere alla pista per le prove a causa del suo ritardo, era silenziosamente risalito sulla sua Porsche e, pigiato l’acceleratore a tavoletta, aveva sfondato la sbarra che lo separava dall’ingresso. Fu un attento commercializzatore, uno dei primi a sfruttare sagacemente gli appetiti degli sponsor, e anche un amante della bella vita che parve risolvere nella nota formula donne, motori e champagne, senza che la navigazione nell’oceano della fatuità gli cancellasse dal volto quell’espressione da ricco annoiato. Tanto più che a eccitarlo contribuivano poco persino le corse, che vinceva con facilità esagerata. Proprio quella schiacciante superiorità ha indotto diversi commentatori ad attribuire buona parte del merito delle vittorie di Agostini alla potenza della moto che guidava. La Mv era certamente una spanna sopra le case rivali, ma trovò in Agostini un interprete ineguagliabile, che la portava regolarmente in fondo, con tecnica esemplare e senza mai strafare. Forse alla gloria presso i critici del settore, oltre al demone dell’invidia, nocque il suo stile composto e raccolto, cosi diverso da quello disordinato e spettacolare di tanti suoi rivali, che però spesso sfasciavano il mezzo o, peggio, lasciavano la vita sui circuiti. Agostini, che cadde pochissime volte e al massimo si fratturò una spalla, se da un lato era la quintessenza del motociclismo, dall’altro pareva, con l’aspetto detestabilmente lindo e la sfrontata sicurezza, contraddirne la simbologia di sfida alla vita.
Estratto (da “Storia e storie dello sport in Italia“)
Nuvolari, Mussolini, Coppi, il miracolo economico, Maradona, la borghesia di inizio secolo, i caratteri degli italiani, il Coni, l’alpinismo, il doping, la violenza negli stadi… In questo libro, dai primi passi nell’Ottocento fino alla fine degli anni Novanta, lo sport viene trattato come osservatorio privilegiato per la comprensione di fenomeni sociali e culturali e fotografia della vita nazionale. Ma Storia e storie dello sport è anche una specie di romanzo collettivo in cui gli atleti e i personaggi sono narrati nei loro dati umani e tecnici, essenziali o piacevolmente inessenziali.
Scrivi un commento