Il calcio nasce in Inghilterra nell’Ottocento e ha come antenati i vari giochi con la palla delle epoche precedenti. Inizialmente è una commistione di quelli che, a partire dal 1863, saranno due sport separati: football e rugby. Il football è un perfetto esempio di come la nozione inglese di sport metta in primo piano la lealtà, il rispetto delle regole e l’astensione da comportamenti violenti. Nei suoi primi passi si gioca senza l’arbitro ed è dribbling game: il gioco consiste nel superare gli avversari, passare palla ai compagni sarebbe un atto di codardia. Quando nel 1872 nasce la federazione inglese di football e il gioco è sottoposto a una più minuziosa regolamentazione, viene conservata, proprio come norma di fair-play, la regola del fuorigioco. Colui che tiene un astuto atteggiamento di rapina, collocandosi alle spalle dei difensori senza scartarli con la palla al piede, si mette fuori-gioco e viene sanzionato. Nascono le prime rudimentali strategie. Giocare all’inglese vuol dire prediligere i lanci lunghi; alla scozzese privilegiare passaggi corti. Le tattiche consistono inizialmente in grandi ammucchiate: tutti all’attacco tranne il portiere. Il primo schieramento razionale sul campo è la cosiddetta piramide, detta anche metodo: due uomini, i terzini, giocano arretrati dinanzi al portiere, cinque all’attacco e tre fungono da cerniera.
Sono proprio gli inglesi a far conoscere il football nel nostro paese. I marinai britannici, per ingannare il tempo durante l’attracco, si esibiscono sui moli sotto lo sguardo incuriosito dei presenti. Un ruolo di padre della patria pedatoria spetta, tuttavia, a Edoardo Bosio, rappresentante di una ditta italiana in Inghilterra, che, sedotto dal nuovo gioco, torna a Torino con un pallone di cuoio e converte alla sua fresca passione gli impiegati dell’azienda per la quale lavora. A Torino nasce il primo club calcistico, l’lnternational Football. Ma anche le società di ginnastica scoprono le regole del football e introducono nei concorsi nazionali ginnici la prova di calcio, la prima delle quali, nel 1895, viene vinta dalla Società ginnastica udinese. Si sviluppano i club che praticano esclusivamente il gioco del pallone e il 6 gennaio 1898 per la prima volta una squadra viaggia per un centinaio di chilometri al solo scopo di disputare una partita: è il Football club torinese che vince a Ponte Caregga contro il Genoa, che è nato come circolo per soli inglesi residenti in Italia, desiderosi di guadagnare stima presso le élites locali mediante la pratica di un gioco alla moda. Dopo cinque mesi si svolge il primo campionato italiano ufficiale della neonata federazione: tra i suoi attivi promotori c”è Luigi di Savoia, Duca degli Abruzzi, un tipino vivace che trova sempre un modo per ammazzare la noia e che otto anni dopo scalerà la vetta africana del Ruvvenzari, a oltre cinquemila metri, meritandosi la prima pagina della «Domenica del Corriere». In un’unica giornata scendono in campo le quattro squadre partecipanti. Le persone a bordo campo sono poco più di un centinaio. La folla è altrove in quell’8 maggio 1898: per esempio, in piazza a Milano per protestare contro il rincaro del pane, presa a cannonate per ordine del generale Bava Beccaris che per la sua risolutezza riceverà una decorazione dal re. I giornali, la cui attenzione è assorbita dall’evento funesto, non riportano neanche la notizia della vittoria del Genoa che inaugura l’albo d’oro del calcio nazionale. I liguri si ripetei-anno Fanno successivo, nel quale già nascono le contestazioni. La squadra milanese dell’internazionale lamenta la parzialità dei giudici di porta, deputati a giudicare se il pallone abbia o meno varcato la linea della rete e primo segnale che il calcio va assumendo una fisionomia, iperregolamentata e burocratica, tipica della legislazione continentale.
Dopo la vittoria del Milan nel 1900 e una serie di successi del Genoa, tecnicamente la squadra più forte, il 1905 segna il primato della Juventus. La squadra è stata formata dagli studenti del liceo Massimo D’Azeglio che, dopo incerta discussione, hanno scartato l’ipotesi di denominarla col nome della loro scuola. A fronte degli abbigliamenti raffazzonati e completati da scarpe da passeggio degli avversari, la Juventus presenta già una sua particolare eleganza. La divisa è in percalle, che all’epoca costa settanta centesimi al metro. Gli atleti hanno una fascia scura alla cintola, una cravatta a farfalla, nera come i pantaloncini. Completa la tenuta un berrettino savoiardo. Non fa più parte della formazione Marchi, detto «velivolo» perché portava sul capo un berrettino con due eliche laterali. Gioca ancora, invece, il portiere Durante, famoso perché aveva stretto amicizia con un caldarrostaro che seguiva la partita dietro la porta e presso il banchetto del quale Durante si scaldava le mani nelle giornate di freddo. Le proteste degli invidiosi portieri avversari provocarono un’ammonizione per Durante e l’allontanamento del caldarrostaro. Le comodità piacevano a tutti: se pioveva gli arbitri aprivano l’ombrello. E di tipi bizzarri ne circolavano parecchi, come quell’attaccante ungherese che rialzandosi dalle cadute tirava fuori della tasca un pettinino e si dava una ravviata. Il clima delle partite, di solito, era disteso. Nelle amichevoli quasi sbracato. Lì non solo non era importante vincere ma nemmeno giocare. Nel 1906 un’amichevole tra due squadre milanesi non venne disputata perché l’arbitro, svegliatosi con un pizzico di raucedine, a contatto con il clima umido pur se non piovoso, decise che non era il caso di rischiare un raffreddore e rimando le squadre negli spogliatoi senza che a nessuno venisse in testa di contraddirlo. Fatti strani nelle amichevoli, e non solo in Italia, continuarono ad accadere anche anni più in là. Nel 1924 il Genoa giocò a Buenos Aires contro la nazionale argentina e il calcio d’inizio venne dato dal presidente della repubblica. L’attaccante, ricevuta la palla partì di gran carriera e col presidente ancora in campo indirizzò un tiro verso la porta del divertito portiere De Prà. L’arbitro, tra le proteste dei genovesi, convalidò il gol. Rimase l’unico caso di assist fornito da uno statista.
A partire dal 1907 nacque l’astro della Pro Vercelli. La squadra era la sezione sportiva di una società di ginnastica. Queste società avevano continuato per un po’ a giocare partite per conto loro al di fuori della federazione, con regole pressoché identiche ma con maggiore attenzione al profilo disciplinare tanto che in caso di pareggio l’arbitro assegnava la vittoria alla squadra più corretta. Nel mondo ginnastico lo sport trovava un terreno fertile. Le società erano nate con finalità patriottiche ed educative ma i ginnasti avevano un fisico sviluppato pronto a recepire qualsiasi tipo di sforzo e il germe dell’agonismo puro pronto a occupare il posto delle pedanti velleità esibizionistiche. Il calcio favorì la loro riconversione. I ginnasti correvano il doppio degli altri e aggredivano la palla con maschio furore. Maschio non è parola fuori posto. Al forte mediano Vercellese Guido Ara si deve il celebre motto: «il calcio non è sport per signorine». Avevano anche un certo raziocinio tattico, cosicché le loro accelerazioni improvvise erano precedute da lunghe serie di tocchetti laterali, a preludio dell’offensiva Vibrata a sorpresa. Il loro tono muscolare era talmente elevato che, finché giocavano in seconda categoria, nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo intrattenevano il pubblico con gare di velocità sui 60 e sui 200 metri. Una volta l’attaccante Milani, dopo una vittoria per 3-0 sull’Alessandria e un suo personale successo nella digressione velocistica, uscì dallo stadio e giunse secondo a una gara ciclistica di venti giri in piazza delle Armi, poi andò a ballare il valzer fino a mezzanotte.
Ma la caratteristica che rendeva unica la Pro Vercelli nel panorama dei club migliori era il suo esser composta al cento per cento da atleti rigorosamente vercellesi. Sfruttando l’alleanza degli altri club ginnasti, riuscì a far imporre dalla federazione l’esclusione dei calciatori stranieri. Non era questione di volersi avvantaggiare. La cultura di provenienza fortemente nazionalista delle società di ginnastica, che permeava anche lo spirito con il quale affrontavano la competizione, rendeva loro incomprensibile e insopportabile cimentarsi in un campionato italiano che non fosse riservato agli italiani. Per protesta Milan, Genoa e Torino si ritirarono dal torneo del 1907, che i piemontesi Vinsero battendo due soli avversari. Però negli anni successivi il loro dominio fu chiaro. Vinsero fino al 1913, con la sola eccezione del 1910, anno in cui furono loro a reclamare contro la federazione che aveva prescelto per la finale una data in cui alcuni suoi giocatori avevano impegni militari. Per esplicitare il dissenso, la Pro Vercelli mandò in campo contro l’Inter una formazione di ragazzi e la federazione, che doveva fornire credibilità alla sua fresca legittimazione, sospese i vercellesi. Essi, pertanto, non poterono giocare nel primo incontro della nazionale, disputato all’Arena di Milano contro la Francia e vinto per 6-2. Dopo un mese, l’Italia affronto la prima trasferta, a Budapest contro l’Ungheria. Gli atleti viaggiarono in treno e delle provviste si occupo un giocatore, che le aveva acquistate dal suo salumaio. I magiari erano tatticamente avanti e la nazionale venne travolta per 6-1. L’esordio di una squadra nazionale, avvenuto in un periodo di forte nazionalismo, con la guerra libica alle porte, condusse per la prima volta un pubblico numeroso alle partite. Fino al 1910 di rado si superavano le duecento persone, inclusi parenti e amici stretti. A Italia-Belgio nel 1913, invece, assistettero 18.000 persone e da quel periodo gli spettatori degli incontri di eccellenza si contarono nell’ordine delle migliaia. Anzi, prese piede l’abitudine del commento del lunedì. Pare che fra i luoghi più gettonati al riguardo si sia rapidamente imposto il barbiere. E un peccato che a tutt’oggi manchi un’indagine sociologica volta ad appurare su cosa vertessero le conversazioni dai barbieri prima dell’avvento del calcio,
Fino alla prima guerra mondiale i calciatori, con poche eccezioni, non guadagnavano né era previsto che ciò avvenisse. Erano, peraltro, tutti figli della buona borghesia. Fino al 1913 nessuno cambiò squadra. Il primo fu il mediano De Vecchi, forse il miglior giocatore prima della guerra, detto «il piede sinistro di Dio». Il movente fu economico: il Genoa gli offri un posto in banca e in tal modo lo sottrasse al Milan. Era pronta a tutto in quel periodo la squadra ligure pur di riguadagnare il vertice nazionale. Offri anche mille lire a due calciatori dell’altra squadra genovese, l’Andrea Doria. Questi andarono a versarli in banca ma ebbero la disgrazia di incappare in un cassiere accanito tifoso dell’Andrea Doria. Costui fotografo gli assegni e li portò al presidente dell’Andrea Doria che espose il caso in federazione. Il Genoa e i calciatori evitarono la squalifica facendo prevalere l’improbabile tesi che la cifra fosse un prestito per i due, intenzionati ad avviare un’attività commerciale. Ci rimise solo cassiere che perse il posto per aver violato il segreto professionale.
Al primo stormir di fronde bellico la federazione fermò il campionato, in nome di una scelta interventista. Quando ricomincio, il mondo calcistico constatò di essere ormai istituzione solida, entrata nel cuore della gente. Tra i suoi estimatori c’era anche Antonio Gramsci, entusiasta tifoso juventino. In una nota del 1918, intitolata Il calcio e lo scopone, dopo aver evidenziato i vantaggi salutistici dell’attività motoria così concludeva: «La partita a scopone ha spesso avuto come conclusione un cadavere e qualche cranio ammaccato. Non si È mai letto che in tal modo si sia conclusa una partita di football».
Estratto (da “Storia e storie dello sport in Italia“)
Nuvolari, Mussolini, Coppi, il miracolo economico, Maradona, la borghesia di inizio secolo, i caratteri degli italiani, il Coni, l’alpinismo, il doping, la violenza negli stadi… In questo libro, dai primi passi nell’Ottocento fino alla fine degli anni Novanta, lo sport viene trattato come osservatorio privilegiato per la comprensione di fenomeni sociali e culturali e fotografia della vita nazionale. Ma Storia e storie dello sport è anche una specie di romanzo collettivo in cui gli atleti e i personaggi sono narrati nei loro dati umani e tecnici, essenziali o piacevolmente inessenziali.
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