Dopo oltre cinquant’anni i mondiali tornano in Italia e sono in molti a pensare che anche questa volta il fattore campo potrebbe preludere a un successo azzurro. La squadra è buona, una nuova generazione ha soppiantato quella del trionfo spagnolo. Al timone c’è Azeglio Vicini che, nel 1988, ha già guidato la squadra a un positivo campionato europeo. Anche Vicini non ha un trascorso in squadre di club ed è cresciuto all’interno della federazione. Non è un innovatore, eppure alcuni aspetti del suo gioco configurano uno strappo con il calcio all’italiana. In particolare, la nostra squadra mantiene prevalentemente il possesso di palla, mentre dettame connaturato al catenaccio e ai suoi surrogati è quello di lasciare tale prerogativa agli altri per poter colpire di rimessa. Il gioco è a tratti spumeggiante come forse mai per nessuna nazionale del dopoguerra, a eccezione delle fiammate mondiali di Bearzot. L’unico grande problema è la mancanza di un attaccante d’area alla vecchia maniera, capace di finalizzare il proficuo lavoro dei centrocampisti. L’uomo più rappresentativo è Gianluca Vialli che, assieme a Mancini, giocatore di scarso rendimento in nazionale, sta conducendo la sua squadra, la Sampdoria, a posizioni di vertice nazionali e internazionali, che culmineranno in uno scudetto, una Coppa delle coppe e una finale di Coppa dei campioni. Vialli è un attaccante dinamico, potente e con doti acrobatiche ma non ha sufficiente freddezza sotto porta per essere una prima punta.
Ancor più contenti dei giocatori per l’organizzazione dei mondiali in Italia sono politici e faccendieri di vario genere che, già alla notizia, si accingono a fregarsi le mani e, purtroppo, non solo quelle. I mondiali ’90 sono una fedele fotografia in piccola scala del sistema di corruzione/ conduzione dello stato dagli anni sessanta in poi e ne sono anche una delle ultime applicazioni prima dello scoperchiamento di tangentopoli.
Possiamo in generale dire che i capisaldi di tale sistema sono stati i seguenti: 1) il trasferimento diretto, da parte dello stato, di quote crescenti di denaro a famiglie e imprese: tale funzione, che dovrebbe essere assolutamente marginale a fronte dell’erogazione di servizi, arriva a toccare nel 1991 il 37% della spesa pubblica totale, il 45% se si escludono dal conteggio gli interessi del debito pubblico; 2) la ricerca e la produzione di piccole e grandi occasioni per giustificare tale trasferimento; 3) la deviazione dalle norme di diritto ed equità che dovrebbero regolare i trasferimenti; 4) la creazione di un meccanismo compensatorio a favore di coloro che più di rado sono destinatari del denaro, consentendo loro un risparmio di spesa (ad esempio tollerandone l’evasione fiscale); 5) il mantenimento e l’allargamento del consenso per mezzo della promessa e dell’attuazione dei punti precedenti. Si è così sviluppato un parassitario circuito di rendite a vantaggio di una consistente parte della collettività la quale ha teso a perpetuarlo al momento del voto, salvo scaricarne la responsabilità esclusiva su alcuni uomini politici. Si può affermare che non è stato un sussulto di indignazione morale a determinare, a partire dal 1992, una crisi politica e una conseguente crisi economica ma che è stata una crisi economica (con riflessi sul sistema sopra descritto) a provocare l’indignazione morale e la crisi politica.
I mondiali del ’90 appaiono subito una ghiotta occasione per un trasferimento a pioggia. Così sono stanziati 3.500 miliardi che, in sede di consuntivo, diventeranno 7.300. Per rendersi conto dell’enormità della cifra si pensi che i mondiali Usa del ’94 avrebbero chiuso il bilancio in pareggio. Alla radice delle spese dirette alle più disparate costruzioni e ristrutturazioni non esiste un disegno edilizio, per quanto perverso, ma solo la logica della grande abbuffata. I soldi mondiali finanziano la strada statale di Ischia, la circonvallazione di Aosta, la tangenziale di Catania, lo stadio di Padova, tutte città che non debbono ospitare nessuna partita. Per eliminare qualsiasi tipo di vincolo e controllo, il governo adotta un decreto con le procedure d`urgenza, quelle che dovrebbero essere impiegate solo per le calamità naturali.
Inoltre, e in contrasto con le direttive Cee, gli appalti possono essere aggiudicati a mezzo della trattativa privata, anche se il valore supera il miliardo e mezzo. E importante spendere, ma non importa come: lavori per 500 miliardi alla data d’inizio dei mondiali non risulteranno nemmeno cominciati. Altri resteranno interrotti e tragicamente inutili, come la linea tranviaria rapida a Napoli. Una parte da leone quale destinataria dei finanziamenti la recita Ban’, città del presidente della Federcalcio Matarrese, prescelta, grazie a questi illustri natali, per ospitare la finale per il terzo posto. 10 miliardi e mezzo costerà uno svincolo della sua tangenziale, a fronte dei 7,5 preventivati (il record delle lievitazioni di costo appartiene ai lavori per il miglioramento della viabilità a Milano sul tratto via Tesio-Lampugnano: da 5 a 35 miliardi). Ed è ancora una cifra conveniente se si pensa ai 54 miliardi che ci sono voluti per i parcheggi a Bisceglie e a San Carlo. Solo 6 miliardi invece è costato l’aeroporto del capoluogo pugliese: però, quando deve atterrare, la squadra del Camerun viene dirottata su un altro scalo, poiché non sono ultimati i servizi antincendio e le attrezzature radar e, del resto, mancano anche le scalette per far scendere i passeggeri.
Uno scandalo nello scandalo, indegno di un paese civile, sono le condizioni di lavoro degli operai
che prestano attività nei cantieri degli stadi. Le norme di sicurezza che dovrebbero tutelarli scompaiono nella giungla degli appalti e dei subappalti e la media di incidenti risulterà quindici volte più elevata di quella nazionale, provocando ben ventiquattro morti. Che quegli stadi siano stati rimessi su in fretta e furia e alla bell’e meglio lo constatano anche i membri delle commissioni di controllo del ministero che negano l’agibilità ad alcuni di essi nell’imminenza delle partite. Il ministro dell’interno Gava concede la deroga per i campionati e un’appendice kafkiana deriva dalla circostanza che alcuni dei funzionari che devono redigere la «giustificazione>>, motivandola, sono gli stessi che avevano negato l’agibilità.
A metà giugno la contesa ha inizio, sotto gli auspici della mascotte tricolore Ciao, un orrendo mostriciattolo neocubista. L’ltalia conferma limiti e pregi sin dalla partita inaugurale con l’Austria, vincendo 1-0 ma sprecando altre sette nitide palle-gol. La mira giusta la trova un piccolo siciliano dagli occhietti spiritati come quelli di un elfo, Totò Schillaci. Buttato nella mischia a partita iniziata, mette dentro il primo pallone che gioca e ciò preannuncia la sua felice ispirazione di quei giorni, mai più ripetuta nel prosieguo della carriera. Egoista e potente nelle conclusioni, in quei giorni Schillaci riesce perfino ad andare a segno di testa, specialità in cui non brilla. Pian piano diventa insostituibile e trova un partner ideale nel giovane fantasista Roberto Baggio, uomo di naturalezza tecnica straordinaria, precisissimo sui calci piazzati, incontenibile nel dribbling: non è tuttavia di facile collocazione sul campo, in quanto oscilla tra la posizione di trequartista e quella di seconda punta, ruolo nel quale Vicini lo preferisce. Gli azzurri proseguono il loro cammino sino alla semifinale con vittorie meritate ma sempre risicate nel punteggio. A onta della brillantezza nella costruzione del gioco, i numeri migliori appartengono alla difesa che in cinque partite non ha ancora subito una sola rete, specie per via della classe di alcuni suoi componenti, quali il plateale ma agilissimo portiere Zenga, il libero Franco Baresi, insuperabile nei contrasti e sempre pronto a rilanciare l’azione a testa alta, e il giovanissimo e stilisticamente perfetto difensore di fascia Maldini.
La semifinale con l’Argentina ci vede favoriti, anche perché gli avversari, campioni uscenti, hanno destato sin li un’impressione penosa. Invece gli azzurri giocano molto contratti, oppressi dal peso della responsabilità. In formazione rientra Vialli che ne era uscito per la debolezza della sua condizione psico-fisica e non risulta rinfrancato dal recupero. Dopo l’ormai consueto gol di Schillaci, proiettato verso il primato nella classifica dei marcatori, gli argentini pareggiano il conto con la complicità di una leggerezza difensiva e si difendono con successo sino alla fine dei tempi supplementari. I calci di rigore, che da qualche anno assegnano la vittoria in caso di parità e sono sempre stati avari di soddisfazioni per le squadre italiane, sanciscono la nostra eliminazione. E una cocente delusione, che la vittoria nella finale per il terzo posto ai danni dell’Inghilterra non basta a mitigare. Ma le critiche appaiono ingiustificate, rivolte come sono a una squadra che su sette partite ne ha vinte sei e pareggiata una, subendo due soli gol e offrendo un buon calcio, pur se inferiore a quello espresso in sue precedenti esibizioni. Vicini ha forse il torto di trasmettere ai suoi uomini la propria personale tensione, aggravata dallo sfilacciamento del rapporto con Matarrese, il quale ha già in animo di rompere con la tradizione e di affidarsi a un tecnico proveniente da un grande club, proposito che attuerà due anni dopo.
Fra gli appassionati qualcuno si consola con i souvenir. ll più demenziale sono le zolle dei campi che, conservate in teche come reliquie, vengono offerte a cifre ragguardevoli che variano a seconda del sito di provenienza. Si va dalle duecentomila di una zona anonima, poniamo la trequarti destra, ai cinque milioni di quell’inestimabile pezzo da amatori, quell’autentico stile imperiale in versione erbacea che è il dischetto del rigore. D’altronde di ricordi del mondiale ce ne sono anche di più ingombranti. Per esempio la stazione romana di Vigna Clara, 80 miliardi di spesa, che avrebbe dovuto decongestionare il traffico nella parte nord della capitale e che chiude invece i battenti il giorno dopo la fine della manifestazione, lasciando il suo unico binario triste e solitario, come in una celebre canzone di Claudio Villa.
Estratto (da “Storia e storie dello sport in Italia“)
Nuvolari, Mussolini, Coppi, il miracolo economico, Maradona, la borghesia di inizio secolo, i caratteri degli italiani, il Coni, l’alpinismo, il doping, la violenza negli stadi… In questo libro, dai primi passi nell’Ottocento fino alla fine degli anni Novanta, lo sport viene trattato come osservatorio privilegiato per la comprensione di fenomeni sociali e culturali e fotografia della vita nazionale. Ma Storia e storie dello sport è anche una specie di romanzo collettivo in cui gli atleti e i personaggi sono narrati nei loro dati umani e tecnici, essenziali o piacevolmente inessenziali.
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