Quando i nuotatori italiani andavano a fondo

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Chi l’avrebbe mai detto che saremmo diventati un paese con tanti campioni nel nuoto? Io no. Ecco un brano dal mio libro, del 1979, quando proprio sembravamo negati per quello sport.

Dal punto di vista dei risultati, il nuoto si è mantenuto ampiamente al di sotto dello standard agonistico medio nazionale, e la recita che lo riguarda, nonostante la buona volontà di qualche dotata comparsa, è assai povera di primattori.

 

Tra il 1969 e il 1974 la mediocre squadra azzurra si fece bella con un autentico fenomeno, Novella Calligaris, che fu anche la prima enfant prodige dello sport italiano, dato che cominciò a brillare sin dai quattordici anni. Quella precocità era così inedita che la Calligaris poté viverla con dispettosa, adolescente monelleria, distribuendo equamente linguacce, corna e vaffa a giornalisti, fotografi, rivali e passanti. Eppure, a giudicare col senno di poi, quella genuina scostumatezza, tollerabile peccato di gioventù, era preferibile all’istrionica disinvoltura hollywoodiana che alcuni ragazzini, derubati dell`età dei balocchi, esibiscono oggi davanti a un microfono. La patavina si rivelò ai campionati italiani assoluti del 1969 quando, nel giro di un’ora scarsa, vinse di seguito tre specialità massacranti come i duecento farfalla, i duecento stile libero e i quattrocento misti. Relativamente minuta, dotata di un’eccezionale galleggiabilità, assorbiva senza apparente sforzo il vorticoso mulinare delle braccia e delle gambe. Raggiunse il culmine con tre medaglie olimpiche (un argento e due bronzi) nel 1972 e, l’anno successivo, con la vittoria ai mondiali di Belgrado.

Per ritrovare un momento altrettanto significativo, il nuoto italiano dovette attendere gli europei di Roma del 1989, che ci regalarono l’illusione improvvisa di un popolo cui fossero spuntate le branchie. In realtà, si trattò solo della personale epopea di Giorgio Lamberti e Stefano Battistelli, entrambi romani, che furono anche, rispettivamente, il primo azzurro a diventare primatista mondiale (dei 200 stile libero, nei quali vinse anche il titolo mondiale nel 1991) e il primo a salire sul podio olimpico.

La litania della penuria di impianti a disposizione dei nostri campioni viene ripetuta con un’ossessività che ne ha fatto quasi un luogo comune. Ma per il nuoto questa lamentela è fondata al cento per cento. ll rapporto piscine/abitanti è stato per anni indecentemente basso, benché il nuoto sia, oltre che uno sport, un’efficace terapia di riabilitazione ossea e muscolare. Non di rado quelle poche aperte finiscono anche in malora, poiché i costi annui di manutenzione di una piscina sono elevati ed equivalgono a un terzo di quelli di costruzione. Ma basta questo dato per giustificare la povertà agonistica del nostro paese, in uno sport che, per giunta – valorizzando qualità specifiche di acquaticità – non richiede nemmeno quella nerboruta possanza alla quale, per ragioni economiche, l’Italia è giunta in ritardo?

D’accordo, non ci sono piscine, ma si dà il caso che la nostra sia una nazione interamente circondata dal mare. Si dirà che la tecnica si apprende in piscina. Però anche la tecnica della corsa atletica si perfeziona in pista, eppure i kenioti, che hanno gli altipiani dove correre ma non certo gli anelli in tartan, sono i migliori mezzofondisti del mondo. Un’indagine dell’lstat del 1983 dimostrò che il problema degli italiani non è quello di non nuotare abbastanza veloce, bensì quello di non nuotare affatto. L’incredibile risultato dell’inchiesta fu che il 65% degli italiani non sa nemmeno tenersi a galla. Non è un caso, probabilmente, che nel 1950 l’Italia abbia vinto il campionato mondiale di salvataggio a mare, che richiedeva un proficuo allenamento nel settore.

Ovviamente, nuotare in piscina o in mare non è la stessa cosa: l’uno richiama la libertà e il senso dell’infinito, l’altra è un perimetro angusto, e il passaggio ripetuto da un bordo vasca all’altro è un’operazione ripetitiva e alienante, che mal si presta al carattere nazionale. Non rileva qui se l’italiano sia effettivamente creativo e fantasioso, ma solo che ami ritenersi tale e che giudichi, di conseguenza, la piscina come una mortificazione del suo estro. Così, mentre lo sport in generale gode fama di preparazione alla vita, il nuoto viene esercitato quale preparazione allo sport e si ritiene che la formazione che offre sia di tipo meramente muscolare.

Ma prima ancora che nel passaggio dal mare alla piscina, il te nasce a mare. E questo perché in Italia, più che il mare, quale luogo di autoisolamento e immersione conturbante nella natura, è amata la spiaggia, come spazio mondano e di socializzazione. Se ci si affaccia su un qualunque lido si resta colpiti dalla sproporzione tra l’affollamento sulla sabbia o sugli scogli e in prossimità della riva a fronte della sporadica presenza al largo di pochi temerari. Sin dall’infanzia, i bambini riconoscono l’acqua come elemento ostile dal quale difendersi. I genitori li tengono sotto controllo, e raccomandano loro di non avventurarsi al largo, lontano dalla loro vista. Nei paesi nordici non c’è altrettanto controllo. Il mammismo iperprotettivo del popolo italiano conosce il suo battesimo sulle spiagge. Quei bambini, cui viene severamente vietato di spingersi al largo, dove non c’è piede, sono quegli stessi figli che, ormai cresciuti, si mostreranno, contrariamente a quanto avviene all’estero, riluttanti ad abbandonare il tetto familiare d’origine per costruirsi una vita autonoma, senza i soldi di papà e la pastasciutta della mamma (destinata a restare ineguagliata), timorosi di spingersi oltre la riva della loro esistenza, sin dove le onde coprono lo sguardo e forse non si tocca, insomma al largo.

Non è detto quindi che a cambiare il volto natatorio dell’Italia saranno sufficienti i recenti incrementi dell’impiantistica pubblica, la diffusione delle piscine condominiali e il lodevole ripensamento dei metodi di insegnamento, approdati a una filosofia più ludica, dopo gli eccessi della vecchia scuola di ispirazione californiana. Questa suggeriva, grosso modo, di gettare coercitivamente in acqua i pargoli sin dalla tenerissima età, lasciandoceli sino a quando non comparissero i primi segni di cianosi. Molti adulti di oggi, colpiti da comprensibile rigetto, ricordano l’acqua della piscina alla stregua di uno sgradevole olio di ricino, senza nemmeno il vantaggio di poterne trangugiare un solo cucchiaio per volta.

Nuvolari, Mussolini, Coppi, il miracolo economico, Maradona, la borghesia di inizio secolo, i caratteri degli italiani, il Coni, l’alpinismo, il doping, la violenza negli stadi… In questo libro, dai primi passi nell’Ottocento fino alla fine degli anni Novanta, lo sport viene trattato come osservatorio privilegiato per la comprensione di fenomeni sociali e culturali e fotografia della vita nazionale. Ma Storia e storie dello sport è anche una specie di romanzo collettivo in cui gli atleti e i personaggi sono narrati nei loro dati umani e tecnici, essenziali o piacevolmente inessenziali.

Libro esaurito nelle librerie, presto sarà possibile scaricarlo gratuitamente da questo sito
Di |2020-09-11T15:16:22+01:0019 Gennaio 2018|Storia e storie dello sport in Italia|

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