L’automobilismo aveva ottimi motivi per essere amorevolmente seguito dal regime. Attraverso le vittorie delle macchine italiane il fascismo intendeva propagandare i progressi della propria industria meccanica; con lo svolgimento della Mille miglia dimostrare che le strade italiane non erano sentieri cosparsi di pietre; con le imprese dei piloti suggellare l’ardimento che il popolo italiano doveva praticare. Di fegato per correre in macchina ce ne voleva effettivamente parecchio. Pur se migliorate le strade erano cosparse di buche, cunette, ghiaia, curve scivolose. Alcune corse dovevano proprio all’accidentalità del percorso uno dei motivi di fascino: in particolare la Targa Florio siciliana, intitolata a uno dei personaggi più singolari del mondo motoristico di inizio secolo, il nobile Vincenzo Florio, che aveva assunto un pilota come autista e fatto svolgere, partecipandovi, corse nel suo parco privato. Le gare nei circuiti avevano ai bordi alberi e paracarri. Le ricerche tecnologiche trascuravano completamente la sicurezza del conducente e si confrontavano esclusivamente sull’aumento della velocità, che raggiunse picchi inverosimili rendendo i veicoli delle scatole mortali. Le medie nei gran premi erano più basse di oggi ma la velocità che l’auto era capace di raggiungere decisamente superiore; esisteva il primato mondiale di velocità che, nel 1937, venne portato da un inglese, cimentatovisi nel deserto salato dell’Utah, a oltre 596 chilometri orari, sopra una Ransom dalla forma particolarmente strana, simile a quella di un topo.
Questa roulette con la vita come posta trovò il suo massimo interprete nel mantovano Tazio Nuvolari. Di taglia bassa e 57 chili di peso, Nuvolari cominciò la carriera come motociclista segnalandosi, oltre che per le vittorie, per l’incosciente temerarietà. Era arrivato al punto di farsi imbottire la tuta di fiocchi di lana sotto i gomiti, per strisciare questi ultimi contro i muretti che delimitavano la strada nelle curve. Nel 1925 venne ricoverato in ospedale per un pauroso incidente, ma volle presentarsi egualmente alla partenza nel Gran premio delle nazioni, facendosi fissare strettamente le bende in posizioni che non lo ostacolassero sul sellino. Durante la corsa urtò un muretto, rompendosi falangina e falangetta dell’indice della mano sinistra. Con l’osso sporgente dal guanto arrivò sino in fondo, vincendo la corsa.
Il meglio lo dava in auto. Aveva prestato servizio militare guidando le ambulanze e un colonnello, atterrito da quella guida che probabilmente era insalubre per le coronarie degli infermi, lo aveva invitato a lasciar perdere il volante. Per fortuna il mantovano non seguì il consiglio. Aveva uno stile di guida entusiasmante e personale. Il suo pezzo forte era la curva affrontata con il piede schiacciato a tavoletta sull’acceleratore sia all’imbocco che all’uscita. I freni non sapeva neanche cosa fossero: «Fanno solo perdere tempo, meglio tirare diritto» diceva. La folla si innamora di lui a Rapallo nel 1925: secondo un topos che diverrà ricorrente sfascia parte della macchina in un’uscita di strada ma la fa ripartire così com’è, in quel caso specifico coll’abitacolo semidistrutto e senza pneumatici. Vince arrivando solo sui cerchioni. Sembra combinare una follia galoppante e un alone di magia.
Tra i tanti valorosi rivali, quello che compete alla pari con lui è Achille Varzi. Il direttore tecnico della Mercedes, Neuberger, fotografa con felice concisione la differenza tra i due: «Varzi è un artista, Nuvolari un eroe». Nuvolari pilota ciò che gli capita tra le mani e non si perita nemmeno di controllare lo stato delle gomme prima di partire. Varzi non lascia nulla al caso, conosce ogni gemito o sibilo dei suoi motori e degli avversari studia il punto di frenata e di accelerazione, stabilendo preventivamente dove è opportuno attaccarli. Le sue traiettorie sono stilisticamente esemplari e per questo lasciano freddo il pubblico, assetato di emozioni violente e impreviste. Varzi e Nuvolari corrono a lungo per la stessa scuderia, l’Alfa Romeo, e umanamente si rispettano: ciò non impedisce loro di scambiarsi i trucchi più perfidi per prevalere. Sul circuito di Alessandria, nel 1930, Varzi, alle spalle del rivale nelle ultime curve, ne punta con successo la ruota posteriore per mandarlo fuori pista in un gioco di centimetri. Nuvolari non perde l’aplomb e ricambia, alla grande, la pariglia nell’appuntamento più atteso dell’anno: la Mille miglia. Le vetture dei due guidano la corsa con ampio margine e Varzi è davanti a Nuvolari: dall’Alfa arriva l’ordine di rallentare. Varzi si adegua, Nuvolari spegne i fari per non farsi individuare e frenare dalla scuderia e lancia la macchina sfrecciante nel buio pesto. Quando vede i fanalini di Varzi e si accinge a superarlo (con la vittoria già in tasca, perché la prova era a cronometro ed era partito dieci minuti dopo Varzi), riaccende le luci che trafiggono improvvisamente la notte alle spalle di Varzi. Il quale, composto e imperturbabile, si limita a dire al navigatore che lo affianca: «E’ lui».
Tra il 1931 e il 1934 i loro duelli animano le corse. Nuvolari e Varzi sono diversi anche nella vita privata, che paradossalmente ne ribalta le personalità rispetto all’agonismo: Nuvolari, che in corsa grida «op op» o «si vola si vola» mentre rischia la pelle o parla agli avversari che supera, è quieto e taciturno, ama la vita casalinga e la famiglia, manda a studiare i figli in un collegio in Svizzera, razionalizza i suoi spostamenti servendosi di un aereo personale e acquistando un camion/hangar in cui trasportare i bolidi. Una delle poche frequentazioni che si concede volentieri è quella del poeta Gabriele D’Annunzio, vicino al quale compra anche una casa sul Garda. Varzi è scapolo, dilapida i suoi ingaggi astronomici nelle serate con gli amici consumate nel tabacco e nell’alcool. E nei vestiti. Varzi è elegante e vanitosissimo: si fa preparare da un sarto, pagandogli l’esclusiva, una tuta di seta color azzurrino pallido che indossa in tutte le corse. Nuvolari gli replica adottando anche lui un’uniforme da combattimento: un pullover giallo a collo lungo, con incisa sopra una tartaruga disegnata da D’Annunzio.
Nel 1935 Varzi abbandona l’Alfa e firma un sontuoso contratto con la tedesca Auto Union. In Italia viene vissuto come un tradimento. L’automobilismo tedesco è già vincente e tronfio. La Mercedes e l’Auto Union, grazie ai materiali in lega leggera offerti dalla sofisticata tecnologia dell’industria metallurgica e non ancora alla portata dell’Italia, riescono a far stare nel peso di 750 chili previsto dal regolamento una cilindrata di 6.000 centimetri (contro i 2.900 delle vetture italiane). L’acrobazia volumetrica è stata sofferta: alla prima uscita nella nuova formula compressa, la Mercedes pesa 751 chili e i commissari di gara minacciano di non farle prendere il via. I meccanici allora grattano via la vernice bianca dalla carrozzeria e riescono a recuperare il chilo malandrino. Da quel giorno la Mercedes da corsa adottò il colore argenteo, quello naturale della carrozzeria in alluminio. Nel 1935 si corre il Gran premio di Germania che dovrebbe essere la grande celebrazione della superiorità tecnologica tedesca. I bolidi della Mercedes e dell’Auto Union sembrano destinati a fare corsa a sé. Invece alla partenza un Nuvolari in grande spolvero, facendo esclusivo affidamento sulla sua condotta spericolata e a dispetto dell’inferiorità di cavalli, tiene lungamente in scacco le macchine tedesche. Però al rifornimento i meccanici rompono la leva che aziona la pompa del carburante e debbono ricorrere ai bidoni e all’imbuto. Nuvolari perde 70 secondi e riparte quarto, ma non demorde e rimonta sui tre tedeschi che lo precedono. All’ultimo giro ha davanti solo la Auto Union di Von Brauchitsch. Il margine di trenta secondi a favore di quest’ultimo parrebbe impedire sorprese, ma per rintuzzare il prepotente ritorno dell’italiano il battistrada è costretto a forzare e distrugge i copertoni, per í quali le accelerazioni del poderoso motore sono strappi letali. Presente Hitler, tutto è pronto per celebrare il trionfo della Germania. Invece sul rettilineo sbuca una sagoma rossa: è l’Alfa di Nuvolari. I tedeschi vanno talmente nel pallone che non trovano nemmeno l’inno nazionale italiano. Provvede il vincitore a far tirare fuori dalla sua valigia il disco della Marcia reale, debitamente imballato.
La folla stravede ormai per lui e la considerazione che ne ha non è molto dissimile dal quadro che molti anni dopo avrebbe tracciato Lucio Dalla nella più poetica canzone mai dedicata a un campione dello sport: «Nuvolari ha le mani come artigli / Nuvolari ha un talismano contro i mali / Il suo sguardo è di un falco per i figli / I suoi muscoli sono muscoli eccezionali». Mussolini, che lo ammira incondizionatamente, si fa fotografare con lui a villa Torlonia e ne fa un altro grande ambasciatore dell’Italia fascista.
In quel Gran premio di Germania Varzi ha disputato un’opaca gara di retrovia. Ha la testa altrove, si è innamorato, corrisposto, della bella e bionda moglie di un giovane compagno di squadra. E non è solo il cuore in subbuglio a minarne la lucidità in corsa: ai suoi vizi ha aggiunto la morfina. Nel 1937 corre a Tunisi: si presenta scuro e ferito nell’orgoglio perché la settimana prima, quando ha vinto a Tripoli, il ras Italo Balbo gli ha maliziosamente fatto balenare il sospetto che ai piloti tedeschi fosse arrivato dalle autorità naziste l’ordine di tirare i freni, per suggellare il patto di amicizia italo-tedesco in una zona cara agli italiani. A Tunisi, per la prima volta in vita sua, Varzi sbaglia l’imbocco di una curva ed esce di strada, fortunatamente illeso. Si tuffa nella droga e nella bella vita con la compagna Isotta e a fine anno i tedeschi non gli rinnovano il contratto. Per Varzi è uno scossone. Cerca di rimettersi in carreggiata e si presenta all’Auto Union implorando una macchina. Su insistenza degli stessi ex compagni di squadra, la chance gli viene accordata e Varzi sembra coglierla brillantemente perché in prova va più forte di tutti. Ma il suo Gran premio d’Italia, il mese dopo, è un calvario: arriva al traguardo di un pallore cadaverico, inzuppato di sudore nella tuta azzurrina. La morfina ha lasciato il segno. Il medico gli ordina di sospendere l’attività sportiva. «Dite pure che sono un uomo finito» commenta distrutto.
Il 1937 è un brutto anno anche per Nuvolari. Se è vero che fracassare ripetutamente l’auto contro gli alberi non significa necessariamente lasciarci le penne è vero anche, come naturale corollario, che sistemare il figlio in un collegio svizzero non necessariamente significa sottrarlo ai pericoli. Il diciottenne Giorgio si busca una miocardite e rientra a casa. Rimane a letto per tre mesi e si calma solo con vicino il padre, che sa onnipotente e immortale. «Papà, voglio vivere» e il padre «Sei un Nuvolari e devi vivere, devi vivere». Nuvolari parte per l’America e il figlio immediatamente si aggrava. Tre giorni dopo Giorgio ha la piena consapevolezza che la morte è venuta a prenderselo. «Papà fermami per carità, fermami», sono le sue ultime parole.
Nuvolari continua a uscire ammaccato ma sostanzialmente indenne da incidenti paurosi. Dopo uno, nel quale viene a stento sottratto alle fiamme, nel 1938 annuncia il ritiro. Sogna il fuoco anche la notte e non riesce a dormire. Rimessosi in piedi ci ripensa e viene convinto dall’ingegner Porsche a guidare un’Auto Union sperimentale e ai limiti dell’ingovernabilità. Per Mussolini il passaggio alla marca tedesca di Tazio è un brutto colpo. Ma i tifosi sono pronti ad accoglierlo con immutato entusiasmo e lui li ripaga vincendo a Monza, alla sua maniera, il Gran premio d’Italia del 1938.
Poi irrompe la guerra. Nuvolari scompare dalle poche corse. Quando si ripresenta in pubblico nel 1946 è un uomo che si affaccia ai cinquant’anni, ed è ancor più segnato dal dolore. Il secondo figlio Alberto si è spento, anche lui a diciotto anni, per una nefrite. Alla famiglia Nuvolari è toccata un’altra terribile agonia. Una notte Alberto sogna che un temporale ha fatto cadere la lastra accanto alla tomba di Giorgio. Al mattino si riscontra che il fatto è veramente accaduto. Quella stessa sera Alberto si arrende al male.
Nuvolari vuole tornare a correre anche se ha i polmoni intasati dai gas di scarico ed è costretto a coprirsi la bocca per non respirarne altri. Mai come in quegli anni è vero che «Il suo volto è una maschera tagliente / ha la bocca sempre chiusa / di morire non gli importa niente» (sempre Dalla). Partecipa nel 1947 alla prima Mille miglia dell’età repubblicana: questa volta la corsa non vuole ostentare nulla che non sia la sopravvivenza del paese, la sua ferma volontà di ricostruzione. Nuvolari guida una Cisitalia di 60 cavalli contro i 140 delle Alfa Romeo. Nonostante ciò, dopo un centinaio di chilometri, è al comando. Ma la buona sorte si è oramai dissociata dal suo vecchio prediletto. Viene giù una pioggia torrenziale sulla sua spider senza cappotta, si bagna lo spinterogeno. Riesce ad arrivare al traguardo secondo complessivo e primo della sua categoria di cilindrata ma, con quel successo sfuggito alla fine, è deluso e amareggiato. Tra i tifosi che lo hanno incitato lungo il percorso è apparso, sul Ponte Ticino, perfino Achille Varzi. L’ex pilota si è recuperato fisicamente, ha messo la testa a partito, ha lavorato duramente nella ditta di trasporti del padre. Gli manca una sola cosa per riaffermare davanti a sé stesso la propria orgogliosa identità: riprendere a correre. Torna e vince, in America e in Europa. Ma a Berna nelle prove del Gran premio d’Europa commette il secondo errore di guida della sua vita, ed è quello fatale. E il 1948.
Nello stesso anno Nuvolari, all’ultimo momento, decide di ritentare l’avventura della Mille miglia e Ferrari gli affida una sua macchina. E inarrestabile, sull’accidentato tratto tra Forlì e Roma infligge un quarto d’ora di distacco ai giovani e allenati avversari. A Roma si rompe il gancio del cofano: stacca il cofano e procede senza. Il cielo si rannuvola, se cade la pioggia con quel motore all’aria aperta è fuori gioco. Va in testacoda e nell’urto lo abbandona anche un sediolino. Poi tocca al parafango, quindi al perno della balestra. Perde i pezzi eppure aumenta il vantaggio. Ma la balestra si stacca definitivamente. L’ultimo sogno è finito.
Il male ai polmoni si aggrava, perde quasi la voce e sviene di frequente. La moglie Carolina lo sostiene come può in quell’ultimo cimento. Scampato a mille incidenti, Nuvolari spira nel suo letto nel 1953. Il feretro viene seguito da 25.000 persone commosse.
Carolina è l’unica sopravvissuta della famiglia. Resiste fino al 1981, quando muore mentre passeggia a Gardone. Travolta da un’auto lanciata a folle velocità.
Estratto (da “Storia e storie dello sport in Italia“)
Nuvolari, Mussolini, Coppi, il miracolo economico, Maradona, la borghesia di inizio secolo, i caratteri degli italiani, il Coni, l’alpinismo, il doping, la violenza negli stadi… In questo libro, dai primi passi nell’Ottocento fino alla fine degli anni Novanta, lo sport viene trattato come osservatorio privilegiato per la comprensione di fenomeni sociali e culturali e fotografia della vita nazionale. Ma Storia e storie dello sport è anche una specie di romanzo collettivo in cui gli atleti e i personaggi sono narrati nei loro dati umani e tecnici, essenziali o piacevolmente inessenziali.
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