Nello stesso periodo in cui Panatta consuma i suoi deliziosi misfatti sui campi da tennis, le piste di atletica sono calcate da un velocista italiano che si batte da pari a pari con gli sprinter neri e il più delle volte se li lascia alle spalle. Pietro Mennea è stato uno dei più grandi campioni che l’Italia abbia mai schierato nelle gare sportive, tra lui e un Panatta c’è un abisso di risultati. Eppure mentre le vittorie (e le sconfitte) del tennista catturano adepti allo sport della racchetta, Mennea non avvicina alla corsa nessun nuovo praticante e lascia tiepidi i tifosi, perlomeno in confronto agli osanna che dovrebbero essergli riservati. Il fatto è che Mennea è l’esatto opposto del modello nazionale sportivo che abbiamo appena tracciato, È uno che sembra capitato in Italia per sbaglio.
Mennea nasce a Barletta e, dato che la città non possiede piste di atletica, prova a cimentarsi con la marcia. Poi ha la buona idea di puntare sulla corsa veloce, nonostante la carenza di strutture di cui dispone. Come velocista in nuce è atipico perché è leggerino, quando comincia a raggiungere i primi successi È: alto 1,79 per soli 65 chili. Si distingue a Helsinki nei campionati europei del 1971 nei 200 metri, dove è sesto a meno di vent’anni e l’anno dopo riesce a salire sul podio alle Olimpiadi di Monaco, fuscello in mezzo a voluminose masse muscolari. Mennea lavora sodo. A Formia trova una guida ideale in Carlo Vittori, un preparatore che impone carichi di lavoro spaventosi: non per il barlettano il quale, all’insaputa del tecnico che pensa di averlo spremuto per bene, prosegue gli allenamenti per conto suo. L’azzurro è sempre in prima fila nelle grandi competizioni e non ha rivali tra gli europei. La sua corsa non è impeccabile e talvolta è un turbinio sgraziato: è lento al riflesso della pistola, e si avvia molto rigidamente, il che gli preclude grandissimi risultati sui 100 metri. La sua corsa naturale sono i 200 nei quali, dopo una mezza sbandata in curva, si produce in entusiasmanti accelerazioni sul rettilineo, recuperando anche un assetto di corsa ottimale. A Città del Messico nel 1979 sbalordisce tutti fermando i Cronometri sul tempo di 19,72, nuovo primato del mondo. L’altura dà sempre una mano ai record: ma che quello di Mennea sia speciale lo dimostra il fatto che resisterà per ben diciassette anni. L’ultel-iore consacrazione il velocista la attende a Mosca, che ospita le Olimpiadi del 1980. Il boicottaggio degli Stati Uniti gli rende le cose più semplici ma lui, da perfezionista, ne e tutt’altro che contento perché non vuole una vittoria di categoria inferiore. Minaccia anche di non partecipare, proposito che peraltro paventa, senza mai attuare, alla vigilia di tutte le grandi competizioni. Arriva a Mosca ancora più truce e imbufalito del solito. Nei 100 metri non riesce nemmeno ad arrivare alla finale e lamenta problemi fisici non ben smaltiti. Si arriva al fatidico giorno dei 200. La sorte gli riserva l’ottava corsia della finale, la peggiore poiché non può controllare gli avversari. Subito alle sue spalle, in settima, si trova il rivale più insidioso, lo scozzese Alan Wells, che ha vinto i 100 metri. Mennea parte assai lento, si vede sfilare davanti il britannico che ha già recuperato l’handicap e supera la curva con due metri buoni di vantaggio sull’azzurro che E: preceduto anche da altri due atleti. A questo punto la sua rabbia agonistica gli fa ingranare la quarta e inizia il recupero in quello che ormai è un fazzoletto di pista: ai 180 metri è ancora battuto, ai 190 ha appaiato Wells, sul traguardo si tuffa per primo. Sono appena due centesimi di differenza. Mennea, con il tempo per lui non trascendentale di 20,19, ha vinto le Olimpiadi.
L’anno successivo si ritira, ma dopo un anno e mezzo ci ripensa. Nel 1983 è ancora terzo ai mondiali, nonostante la pausa, i 31 anni e il logorio fisico e nervoso di una carriera che la sua inquietudine rende ancor più stressante di quanto già sarebbe. Nel 1984 centra la sua quarta finale olimpica. Al successivo ritiro, motivato anche dal disgusto per la diffusione del doping, al quale Mennea confesserà di essersi accostato, seguirà un nuovo rientro, meno significativo ma per effetto del quale parteciperà comunque alla quinta Olimpiade.
Un palmarès tecnico veramente straordinario al quale, dicevamo, non è seguita eguale popolarità. Naturalmente a ciò non è estraneo lo scarso interesse dell’industria a investire nell’atletica. L’industria è immediatamente andata a traino dei successi di Panatta e ha offerto una cassa di risonanza perché tra abbigliamento e racchette aveva lucrosi prodotti commerciali da piazzare, per giunta in regime di feroce concorrenza. Nell’atletica al di là delle scarpette non si poteva andare, e su quelle c’era il sostanziale monopolio della Adidas. Se l’atletica avesse richiesto qualche capo di vestiario meglio smerciabile, si trattasse dello scafandro o del tailleur, ci avrebbe pensato qualche esperto di marketing a migliorare il gradimento dell’immagine di Mennea.
Mennea non era simpatico già di suo. Tra i vezzi detestabili: parlare di sé sempre in terza persona e alzare istericamente e prolungatamente il dito indice al termine di ogni vittoria.
Ma a renderlo intollerabile e dunque a scavare un solco tra lui e la gente, c’era quel distacco radicale dal modello di cui si diceva prima. Passi non essere simpatico, passi l’assoluta assenza di sorriso prima e dopo la corsa, ma Mennea era una vera contraddizione del modo italiano di considerarsi e riconoscersi ed espungeva dal suo repertorio ogni ammiccamento all’edonismo, con quel suo ascetismo sofferto, quell’allenarsi tre volte più degli altri. Contrariamente a Berruti (da lui odiato e ricambiato) non scorreva in Mennea il sangue della dolce predestinazione, mancava il sigillo del talento e il metodo dell’improvvisazione era fieramente abiurato. E poi era un arrabbiato. Per trovare un’espressione più calzante dovremmo dire un incazzato. Cumulava in sé una rabbia atavica e senza requie, la rabbia del diseredato, dell’incompreso, la rabbia del sud povero: quel sud del quale era il primo atleta ad ascendere a livelli assoluti, ma che trovava e lasciava nell’identica desolazione di uomini e strutture, con l’unica soddisfazione di vedere costruita una pista a Barletta, all’interno della quale avrebbe abbassato anche il primato del mondo a livello del mare.
La più grande contraddizione di Mennea rimase quella di voler rappresentare un modello di sacrificio per chi voleva emergere, sottolineando contemporaneamente che quel sacrificio era unico e irripetibile. Nel 1978 cominciò le sue pubblicazioni il quotidiano «La Repubblica», che – nella ricostruzione di alcuni- riuscì nell’arduo tentativo di creare un’élite di massa. Mennea perseguì inconsciamente un paradosso ancor più improbo e irrisolvibile, proponendosi come il rappresentante di una massa d’élite.
Estratto (da “Storia e storie dello sport in Italia“)
Nuvolari, Mussolini, Coppi, il miracolo economico, Maradona, la borghesia di inizio secolo, i caratteri degli italiani, il Coni, l’alpinismo, il doping, la violenza negli stadi… In questo libro, dai primi passi nell’Ottocento fino alla fine degli anni Novanta, lo sport viene trattato come osservatorio privilegiato per la comprensione di fenomeni sociali e culturali e fotografia della vita nazionale. Ma Storia e storie dello sport è anche una specie di romanzo collettivo in cui gli atleti e i personaggi sono narrati nei loro dati umani e tecnici, essenziali o piacevolmente inessenziali.
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