L’infelicità che affliggeva la quindicenne Beatrice, a causa della sua obesità e dello scherno che ne seguiva, ha spinto la ragazza a buttarsi sotto un treno. La foto di un quotidiano riporta un grande cartellone steso in mezzo ai banchi di classe sul quale i compagni hanno scritto in caratteri cubitali il suo nome, accompagnandolo sotto con piccole dediche di saluto. La distanza della foto ne lascia visibile solo una: “Di sicuro non eravamo amiche intime. Ma certe cose non dovrebbero proprio succedere”. Se la crudeltà verso il difetto fisico è una componente quasi innata dell’adolescenza, la povertà espressiva ne è invece normalmente l’antitesi. Le cose che “non dovrebbero proprio succedere” sono il latte che manca in frigo al mattino, dimenticare di fare i compiti o che ti buchino la ruota della bici. Il suicidio di una quindicenne è una categoria differente per la quale gli adulti di solito non hanno un vocabolario appropriato e i ragazzi sì, anche perché sanno inventare in un momento, e anche a posteriori, quell’intimità con il prossimo che l’avanzare dell’età farà cadere come una foglia secca dalla pianta delle relazioni. Non intendo certo criminalizzare la ragazza che ha tracciato quel debole epitaffio: me la trovo casualmente come esempio del rischio che la corrente compressione e banalizzazione del linguaggio tra i giovanissimi sia la linea che congiunge la disperazione di chi è messo ai margini e la disattenzione di chi cammina in mezzo. E che ad essa sia necessario reagire. Perché il problema non è, come ipotizzano i docenti lamentando il peggioramento della scrittura degli studenti, che questi non sappiano più rappresentare la realtà. E’ che non sappiano più viverla.
… a cosa dovrei fare io per aiutare i miei figli preadolescenti a saper vivere la realtà …