Tutte le volte che un/una giovane uccide i genitori, con l’aiuto di un amico o un fidanzato, i commenti sociologici e psicologici si concentrano sull’oggetto, e soprattutto, il soggetto sbagliato. Dal punto di vista emotivo, è ovvio, macchiarsi del sangue paterno o materno (o filiale) è forse la cosa più orribile al mondo.Dal punto di vista sociale, però è un fenomeno che ha poco da dire: è, in quei pochissimi casi, la singola, patologica esasperazione di una relazione che è naturalmente ricca di aspetti conflittuali. D’altronde, se i crimini familiari hanno un posto così importante nella mitologia e nella tragedia greca, cioè la culla della nostra cultura, una ragione ci sarà. Il dato socialmente impressionante è invece rappresentato dal complice, quando costui non sia un delinquente che abbia da ricavarne un tornaconto economico. Egli è piuttosto il partner di un’azione solidale, che quella sera poteva indifferentemente risolversi nella celebrazione conviviale di una pizza o in un omicidio. I parricidi e i matricidi ci parlano di un’unica disgraziata vicenda; i complici di quegli omicidi ci offrono uno spaccato assai più inquietante su un esercito di potenziali sicari che non entra in servizio attivo solo perché la maggior parte dei figli, quando è contrariata, si limita a sbattere la porta della propria stanza. E’ in quell’area che i media dovrebbero indagare il crescente vuoto esistenziale e il distacco dalla realtà invece che speculare commercialmente sul più facile scandalismo parricida. Alcuni editoriali sul tema sono sempre imbarazzanti. Altri ripetitivi, come l’ennesima dissertazione del prolificissimo psicanalista Massimo Recalcati su Oggetto, Desiderio, Padre ecc.: eppure si sa che (nonostante le maiuscole) alla fine Lacan che abbaia non morde.
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