La guerra delle toilette è la nuova tappa del conflitto tra le visioni americani della libertà. L’espressione “This is a free country” è tuttora l’espressione più usata, ma pur sempre inaugurata da Thomas Jefferson che possedeva oltre cento schiavi. Non è una questione di ipocrisia.Davvero questioni apparentemente minori ruotano intorno alla parola libertà:che però, radicalizzata in una direzione piuttosto che in un’altra, finisce per essere un costante elemento di divisione. La guerra dei bagni pubblici e scolastici consiste nella risposta alla domanda: quale devono usare i transgender? Secondo le leggi di diversi stati il bagno del sesso di origine. La libertà tutelata è quella dell’uomo (o della donna) standard di procedere alla minzione senza sussulti emotivi (tanto che viene riconosciuto nel Kansas il diritto a un risarcimento di 2500 dollari per l’indesiderato incontro). Obama aveva emanato raccomandazioni vincolanti per consentire l’accesso ai bagni secondo la logica del genere cui l’individuo, liberamente, sente di appartenere. Trump, dato che sconfessare Obama sulle strategie militari richiede più tempo, per il momento si è concentrato sui servizi, e ha abrogato la raccomandazione, suscitando le proteste dei movimenti Lgbt. Entrambe le versioni presentano inconvenienti pratici: in quella restrittiva, ad esempio, bisognerebbe portare con sé una prova cromosomica per ottenere l’accesso in un bagno diverso da quello, per così dire di nascita (così in Indiana). Sui nostri animi abituati al compromesso suscita sempre un certo fascino la combattività americana in sedi imprevedibili. Ci pare incredibile che quella prima richiesta di parziale indipendenza sociale, “Posso andare al bagno?”, venga accolta dal docente con un “Eh!”, come a dire: la fai facile tu. In Italia probabilmente verrebbe emanata una circolare per cui, in particolari condizioni, gli studenti sono liberi di farsela addosso.
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