In un saggio di vent’anni fa, intitolato “Fototerapia e diario clinico”, gli psicologi Edoardo Giusti e Maria Claudia Proietti scrivevano: “Anche se può sembrare impossibile e curioso, le fotografie costituiscono un indicatore per il futuro, un segno delle possibili implicazioni e conseguenze”. E citavano come esempio le foto scattate da aguzzini e vittime durante l’Olocausto, che fungono da ricordo ma pure da monito. Mi è tornato in mente dinanzi al moltiplicarsi di casi nel mondo in cui gli architetti costruiscono spazi, pareti ed edifici adattando la forma alla qualità di “instagramizzazione”, cioè alla possibilità che vengano impiegati per il selfie e condivisi (i perfezionisti piazzano pure gli hashtag sugli arredi). La fotografia, in questo caso, non nasce nel momento in cui la si concepisce, per poi porre un piede nel futuro: è partorita nel passato per bruciarsi in un eterno presente. La posa dei mattoni coincide con la posa dello scatto. Sarà pure vero quel che dice l’architetto Sam Jacob, realizzatore del Cartoon Museum di Londra: “E’ semplicemente un’estensione di quelle figure sagomate in cui potevi infilare il volto”. Eppure quel labirinto di scale in costruzione a Manhattan del costo di 200 milioni, studiato per essere perfettamente proporzionato per la cornice quadrata di Instagram, farebbe una figura migliore se conducesse alla porta di un’alcova invece che nel vuoto. Sembra veramente passato un secolo da quel testo di psicologia. Ma il titolo sarebbe ancora attuale. Perlomeno la parte di “diario clinico”.
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