Se in una riunione di gruppo dicessimo: “Bene. Chi è che adesso tiene i soldi della cassa e decide pure cosa fanno gli altri?”, e qualcuno si sbracciasse sbavando gridando: “Io, io lo faccio io!” tutti la considerebbero una buona ragione per dare l’incarico a qualcun altro. La politica, al contrario, è il luogo in cui consideriamo normale che il potere venga attributo a qualcuno fra quelli che chiedono insistentemente di esercitarlo: i greci, che evidentemente erano più sospettosi oltre che più intelligenti, non a caso temperavano le candidature pubbliche con il ricorso al sorteggio. Negli ultimi tempi è molto in voga definirsi sfacciatamente “entusiasta” quando si tratta di descrivere il piacere di trovarsi in una posizione di governo. E si sente tanto la mancanza di qualcuno che nel prestarsi a quel compito dichiari fatica, o addirittura di rompersi le palle, ma ad esso si pieghi per il senso dell’istituzione. Già l’istituzione: quella strana parola che nessuno pronuncia più, salvo quando c’è da farne uso nella carta intestata.
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