“A quel tempo s’incominciava a parlare di geni del football, ma nelle cronache dei giornali trovava posto tutt’al più un geniale centravanti ogni dieci inventori, tenori o scrittori. Lo spirito nuovo del tempo non si era ancora affermato”. Così scriveva Robert Musil negli anni venti riferendosi al 1913. Quel discorso preveggente sullo “spirito del tempo” torna in mente dopo la singolarissima celebrazione del ritiro di Francesco Totti, e la commozione che ha suscitato. Per una volta non c’è davvero da lamentarsi del calcio come arma di distrazione di massa. Con poche parole semplici e molti sguardi smarriti Totti ha poeticamente raccontato la parabola dell’esistenza declinante e dell’angoscia di fronte al vuoto. Non solo: Totti si presentò in gioventù il simbolo caricaturale della mollezza italiana e dell’ottusità intellettuale. Dopo 25 anni, ci mostra invece come la vita possa consistere nell’evolversi mentalmente, nell’applicarsi con sacrificio al mestiere (certo, privilegiato), nel conservare la spontaneità, nel condividere con gli altri qualcosa di quel che la buona sorte ha elargito. Che insomma il successo può non essere una scorciatoia ma una faticosa opportunità. Quanti degli uomini pubblici di arti sociali più nobili ci inducono a dire lo stesso? Totti, sorprendentemente, conclude la sua carriera (quella vera, come minimo) da modello per l’Italia tutta. Anche nella sua fragilità di fronte al cambiamento, che comprende la riluttanza a lucrare sul suo passato per costruirsi nuove carriere pubbliche per le quali non si sente tagliato. Insomma l’umiltà, quasi contadina, di voler fare solo quel che si sa fare.
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