L’efficacia di una posizione pubblica richiede sovente che un sacco di gente faccia la stessa cosa: è una questione di comunicazione non di conformismo. Se invece di marciare compatti in corteo quelli che chiedono la verità per Regeni, i sussidi di disoccupazione e la concessione o la repressione di un diritto civile si mettessero uno a passeggiare sul lungomare, uno a fare yoga nel parco e gli altri si disperdessero come flaneurs per i quartieri non sarebbe la stessa cosa. Per questo suonano balzane certe giustificazioni sulla riluttanza dei calciatori italiani a inginocchiarsi, o del fastidio che alcuni proverebbero nel vederli inginocchiati. Se tutti dovessimo farlo entrando nei negozi o mentre guardiamo la tv si tratterebbe indubbiamente di un’interferenza nella libertà personale. Ma ci sono eventi e circostanze nelle quali i personaggi che hanno visibilità pubblica sono costretti a scegliere se compiere o no un predeterminato gesto simbolico, e in tal modo dichiarare da che parte stanno- almeno in termini di principio, e rimandando ad altra sede le sfumature del caso. Si può ridurre tutto a una questione di educazione e rispetto della sensibilità della squadra avversaria, regolarsi per come fanno quegli altri? Se l’anno prossimo ci sarà un’amichevole con il Ku Klux Klan bruceremo le croci, per riguardo alla loro sensibilità?
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