Il dolore delle vittime dei terroristi, spesso ammazzate a pochi passi dall’uscio di casa, mi colpisce allo stomaco come poche altre cose. Mi pare che la rinata Unità potesse interpellare diverse persone prima di chiedere un articolo a Fioravanti, non ho fiducia in Fioravanti e Mambro, non mi convince il modo in cui descrivono la propria biografia e trovo penoso che non abbiano niente di cui pentirsi. Resto però sconcertato quando persino un commentatore equilibrato come Stefano Cappellini sostiene che anche se la pena ha il fine di restituire un individuo alla comunità “il cittadino reinserito dovrebbe comprendere che scrivere su un giornale o comparire in tv non sono parte di quel diritto” (del quale invece fa parte ad esempio, “andare in vacanza”). Cioè il senso del recupero starebbe più nello sciare su una pista che nel partecipare a un dibattito pubblico? Io capisco che disturbi la continuità di una certa vocazione a pontificare nelle biografie di molti ex terroristi; e d’istinto mi capita di provare rabbia e repulsione per la disparità tra il loro destino di reinserimento e le vita troncate il cui peso portano sulle spalle. Ma quel che ci aspettiamo dallo stato e dalle sue leggi è che sia superiore alle più istintive emozioni nostre. Dire a una persona che ha finito di scontare condanna, e non da ieri: guarda, che devi entrare dalla porta di servizio è la versione più gentile e ipocrita dell’idea che si debba buttare la chiave.
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