A che gioco gioca Baricco in The game

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Cominciamo con una citazione letterale.

  • Un design piacevole capace di generare soddisfazioni sensoriali;
  • Una struttura riconducibile allo schema elementare problema/soluzione ripetuto più volte;
  • Tempi brevi tra qualsiasi problema e la sua soluzione;
  • Aumento progressivo delle difficoltà di gioco;
  • Inesistenza e inutilità dell’immobilità;
  • Apprendimento dato dal gioco e non dallo studio di astratte istruzioni per l’uso;
  • Fruibilità immediata e senza preamboli;
  • Rassicurante esibizione di un punteggio ogni tot passaggi.

Bon, non mi viene in mente altro: ma ho una notizia importate per voi: a parte rare eccezioni se non state facendo qualcosa che non ha almeno la metà di queste caratteristiche state facendo qualcosa che è già morto da tempo.

Tra poco ci ritorniamo. Anche più di una volta.

 

Alessandro Baricco riprende a distanza di 12 anni l’analisi del saggio I Barbari con The game (pubblicato da Einaudi). Lo scopo del libro sarebbe di ricostruire da cima a fondo l’era digitale: cioè capire da dove è cominciata e perché, e dove probabilmente andrà a parare e, last but not least, se la specie umana si sta estinguendo o evolvendo.

Baricco affronta l’impresa alla sua maniera. Come sempre esibisce la sua qualità divulgativa e illustra fenomeni relativamente complessi in modo straordinariamente e ammiccantemente chiaro (per dire: se vostro nonno non ha capito bene quale differenza corre tra digitale e analogico trovate qui le pagine giuste per l’illuminazione). Come sempre prova a rifilare il pacco di far passare come sue intuizioni originali asserzioni ormai di dominio quasi comune (ci eravate arrivati a capire che non è la tecnologia a inventare lo spirito del tempo ma lo spirito del tempo a inventare la tecnologia? Beh, se non lo sapevate ancora è un problema vostro. E pure che ‘sti ingegneri californiani erano hippy e anarchici). Come sempre ha effettivamente qualche intuizione originale (per esempio: l’unica quantità presente sui mercati è il TUTTO, nel fatto che in ogni business agisca un solo player c’è una caratteristica strutturale, e non solo economica, del procedere digitale. Amazon ha senso perché vende tutti i libri e Google ha un senso perché sonda tutto il web). Come sempre conia qualche plastica immagine di ascendenza letteraria (la triade uomo-schermo-tastiera che segna una postura e una civiltà, come fu per la triade uomo-spada-cavallo nel Medioevo). Come sempre s’ingegna per arricchire la nudità del testo: qui con delle mappe storico-concettuali (non una gran cosa, a essere sinceri) e una puntualissima, concisa e sensata cronologia dell’innovazione digitale. Come sempre la sua scrittura, sapientemente oscillante tra aulico e informale, è un entusiasmante colpo di tacco in una pagina e un’irritante palleggio in area nell’altra. Come sempre, se si tratta di scandagliare sotto la superficie il fiato è un po’ corto.

 

Per tirare le fila, se vi trovate:

  • Un design concettuale capace di generare soddisfazioni sensoriali immediate;
  • Una struttura riconducibile allo schema elementare antecedente/successivo ripetuto più volte;
  • Tempi brevi tra l’esposizione di un tema e il passaggio a un tema successivo;
  • Aumento progressivo della stratificazione di scrittura (e quindi partenza molto piana);
  • Inesistenza o inutilità della drammatizzazione di una posizione ideologica;
  • Apprendimento giocoso e con qualche (giocosa) istruzione d’uso;
  • Fruibilità immediata, con metafore e preamboli provocatoriamente jeans friendly e percezione dei lettori di essere diventati intelligenti tutto d’un botto;
  • Rassicurante esibizione di un atteggiamento scevro da condizionamenti intellettualistici o di classe ed orientato verso un anticonvenzionalismo da divano,

tendenzialmente state leggendo un libro di Baricco. The game non fa eccezione.

Le tesi principali di The Game mi sembrano il legame parentale tra la rivoluzione digitale e il gioco (e la filiazione di tutta la I-famiglia dagli Space Invaders), la centralità assoluta di una filosofia del movimento che sfavorisce l’approfondimento ma incrementa la capacità di collegare punti e di saltare passaggi saltando tra il mondo e l’ultramondo, la fuga dal modo di vivere lineare come negazione dell’antropologia razionalistica che aveva condotto alle distruzioni del Novecento, un progressivo coincidere di essere e apparire, un’apertura di credito verso le nuove generazioni che sapranno correggere le deviazioni più significative purché iniettino dosi di umanesimo a queste costruzioni di ingegneri (maschi, bianchi e americani).

 

E’ un quadro in cui la compressione pare più forte della comprensione. Certo, tirando in ballo il movimento e il gioco qualcuno di noi, forse inguaribilmente analogico, si aspetterebbe che questi due concetti cardine venissero declinati nel loro impatto digitale. Per effetto del movimento, stiamo tornando, da raccoglitori che siamo, dei cacciatori nomadi? E il gioco? Non ci saremmo attesi di vedere chiamato in causa lo splendido, storico saggio di Roger Caillois? L’antropologo (e varie altre cose: lui sì che era un nomade della cultura) raggruppò i giochi in quattro categorie: agonistici (si gioca per competere), aleatori (si gioca per sfidare il fato, come alla roulette), mimetici (si finge di essere un altro, come a Carnevale), di vertigine (ci si consegna a una forza inebriante, come al luna park). Caillois avvertiva che questa meravigliosa e vitale attività umana degenera quando abbandona il suo spazio per trasferirsi nella vita reale: l’agonismo che deborda nella competizione sociale o la mimesi che ci trasforma perpetuamente in maschere, o la vertigine che ci spinge verso la droga. Ora, il game digitale presenta un’incredibile caratteristica: assomma le prerogative di tutte e quattro le categorie. Non solo: ha da tempo abbandonato il retro dei locali in cui Space Invaders soppiantava il flipper e si propone naturalmente come gioco destinato ad ogni angolo della vita reale. Il conflitto con l’ammonizione di Caillois è devastante. Magari va aggiornato Caillois, chissà. Era una buona occasione per farlo. Forse accadrà il prossimo venerdì pomeriggio, come per tanti software di aggiornamento.

 

Per il resto, a me sembra che Baricco li pialli un po’ troppo, i pionieri e padroni del web, tutti etichettati con questa storiella della fuga dal Novecento. Mi pare che la crisi dell’uomo lineare si fosse già evoluta negli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale. Direi anche che da un’eternità la controcultura delle origini si sia rovesciata nel suo opposto; e che non si può discutere seriamente dell’avvento dell’età digitale senza introdurla con la spiegazione di come stava cambiando il rapporto dell’uomo con la libertà, con il corpo e con la comunità. E che ci sia in giro parecchio più conservatorismo che insurrezione, al di là delle apparenze (che nemmeno il digitale è riuscito ancora a far coincidere con il reale).

 

Ma in fondo queste sono opinabili divergenze di prospettiva. Se dobbiamo lamentare quel che manca in The Game dobbiamo piuttosto citare quelle due cosine che sono il capitalismo delle piattaforme, gli effetti neurali della connessione, la privacy, la proprietà dei dati, l’evoluzione dell’intelligenza artificiale, le dinamiche di interazione personale e di introspezione che scaturiscono dall’uso dei dispositivi, l’approfondimento dei concetti di condivisione e connessione. E’ nello stile di un saggio agile non citare Morozov, Sherry Turkle, Greenfield o Floridi ma la sensazione è che Baricco neppure li abbia letti, o perlomeno li abbia considerati, pure loro, qualcosa che è già morto da tempo.

Se no, a un certo punto del libro, ci avrebbe riproposto la sua lista iniziale più o meno così:

 

  • Un design che nasconde la complessità del reale e rende inabili ad affrontarla, anche minimamente, senza uno strumento digitale che la restituisca distorta;
  • Una struttura volta alla soluzione di problemi, la metà dei quali non avevamo, e che induce a pensare che un problema (di qualsiasi tipo, politico come sentimentale) abbisogni soltanto di soluzioni tecniche;
  • Tempi brevi tra l’inizio di un’attività e il passaggio a un’attività successiva;
  • Aumento progressivo delle distrazioni prodotte dall’interfaccia ludica;
  • Inutilità di un’intermediazione che non sia quella del dispositivo, il quale media in funzione di utilità commerciali, sottrazione di dati degli utenti e apprendimento della macchina;
  • Induzione di automatismi che rendano prevedibile il comportamento dell’utente;
  • Ansiogena attribuzione di punteggi virtuali e totale dipendenza psicologica dalla rete sociale creata attraverso la connessione.

 

 

Questa lista potrebbe far pensare che uno si voglia schierare nella contesa tra apocalittici e integrati, che Baricco ha scientemente evitato. Ma non è che una lista di questo tipo avrebbe sporcato il tentativo di purgare il testo dalle opinioni (a parte che la separazione dei fatti dalle opinioni è novecentesca): in un modo più gentile la potrebbero scrivere così anche Tim Cook e Zuckerberg, in uno dei momenti in cui si scusa.

 

In realtà, il modo migliore per non farsi trascinare a fondo dai pregiudizi è riconoscere che la direzione tecnologica che ci viene proposta non è il destino ineluttabile nel quale ci troviamo, e che il fallimento delle promesse risponde a una precisa organizzazione sociale, e che insomma un mondo digitale diverso è possibile ed è necessario un impegno politico e intellettuale consistente per arrivarci. Quel che possiamo fare per le generazioni cui stiamo consegnando il rischio di un futuro nefasto cui abbiamo dato accesso con la nostra passività non è certo dire: vabbè, dai, noi ci siamo assicurati contro l’incubo del 900 (?), ora date una regolatina umanistica a questo dispositivo, li conoscete gli ingegneri se li lasciate da soli in una stanza.

E’ vero che noi siamo perdenti e novecenteschi:  ma il testimone che dobbiamo passare ai ragazzi è quella combattività trasformativa che a un certo punto abbiamo lasciato per strada.

Soprattutto spiegare a loro un dettaglio importante. Siccome semplice non è solo il contrario di difficile ma anche di complesso (questo lo dice testualmente pure Baricco, però concentrandosi sulla presentazione che Steve Jobs fece dell’Iphone), se non impari a seguire i ragionamenti complessi ci sarà qualcuno che ti manipola e ti sfrutta facendoli al posto tuo.

 

(Post scriptum. Facciamo quest’esperimento. Riproduco quella lista che ho collocato all’inizio, con delle variazioni veramente minime, e poi vi dico a cosa corrisponde. Dunque:

 

  • Un design funzionale capace di generare privazioni sensoriali;
  • Una struttura riconducibile allo schema elementare problema/soluzione ripetuto più volte;
  • Tempi brevi tra qualsiasi problema e la sua soluzione;
  • Aumento progressivo delle difficoltà di gioco;
  • Inesistenza e inutilità dell’immobilità come del movimento;
  • Apprendimento dato dal gioco e non dallo studio di astratte istruzioni per l’uso;
  • Fruibilità immediata e senza preamboli, per il solo fatto di appartenere a una categoria;
  • Illusoria supposizione di un punteggio ogni tot passaggi.

 

Lo riconoscete? E’ un campo di concentramento nazista. Ripassate le voci con attenzione se non siete convinti.

Direte voi: e che c’entra? Niente, proprio niente. E’ quello il problema. Se uno schemino, con dei minimi ritocchi, possiamo applicarlo alla cibernetica o al pistacchio significa che è nulla più che un grazioso gioco.

Forse per questo The Game si intitola così).

Di |2020-09-11T15:11:30+01:0030 Novembre 2018|Sulla scrittura|

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