Ci sono quattro fili narrativi che corrono paralleli nel romanzo della scrittrice messicana Guadalupe Nettel, riguardano tutti la maternità, e tutti assumono un senso privilegiato per la posizione di pensiero che l’io narrante di Laura esprime nelle prime pagine: riprodursi è un errore irreparabile. Per come è progettata la società, mettere al mondo dei figli è una fregatura, per tacere del logorio fisico ed emotivo e del disturbo che le arreca il fastidioso chiassare dei mocciosi. Il nostro personaggio ha una posizione più radicale della filosofa Elizabeth Badinter, che vuole sgravare le donne dell’obbligo sociale della procreazione, ma per quel che la riguarda di figli ne ha partoriti tre. Laura, invece, proprio non ne vuol sapere.
Il primo filone narrativo, quello che occupa più spazio ed emozioni, concerne la sua amica Alina, che dopo avere fatto comunella nella derisione della maternità, un giorno comunica a Laura di essere felicemente incinta, lasciandola al principio turbata, come dinanzi a una diserzione, ma poi gioiosamente partecipe. In fondo il bambino non dovrà crescerlo lei, e quella maternità tanto prossima è un’occasione per riflettere su rapporti vicini.
Vicini in che senso? Prima di tutto condominiale. A fianco di Laura è appena venuta ad abitare una mamma con il suo figliolo, che le pianta delle scene terrificanti e trapassanti i muri. Qui è la seconda traccia narrativa. Laura prende a immischiarsi di quel fragile nucleo familiare, reso monco dalla precoce scomparsa del padre. Per la prima volta prende a cuore un bambino, Nicolas, il cui principale cruccio pratico e radice delle sfuriate è la pretesa della madre ansiosa di relegarlo tra le pareti domestiche a causa dei pericoli che circolano fuori dal loro riparo. Gli offre qualche occasione di passeggio, ed entra gradualmente in confidenza con la madre arrivando a comprendere cosa la renda tanto ansiosa e vulnerabile, e sulla soglia del precipizio nell’accettare la propria condizione di genitrice.
Vicini anche in senso consanguineo. Un terzo filone, poco appariscente e modestamente sciorinato ma con uno sviluppo che non va trascurato, è il rapporto di Laura con sua madre. Nell’insieme sereno, e però ogni tanto incrinato dal desiderio di un nipotino e dalla conseguente insistenza sulla fallacia delle negative premesse ideologiche di Laura. Certo, quel sostenere che bisognerebbe avere figli pare interferente e biasimante, e tuttavia è intimamente rassicurante: il genitore che perora la causa della propagazione in linea retta sta ammettendo, come minimo su un piano superficiale, che la sua esperienza è stata positiva. Amaramente spiazzante, dunque, può risultare il suo cambiamento di posizione, il suo attestarsi sulla linea del lo sai che avevi proprio ragione, ma chi ce lo fa fare di mettere al mondo i figli… specie se è pronunciato senza troppa acrimonia, e dunque al di fuori di un paradosso dentro l’antagonismo dialettico.
Il quarto filone, in realtà, funge soprattutto (con enorme grazia ma, devo dire, con un eccesso quasi didattico) da filtro di lettura degli altri tre e del problema della maternità in generale. È la descrizione di una genitorialità animale, un nido di piccioni le cui vicende Laura può contemplare con esattezza sul suo balcone traendone riflessione per analogie e disallineamenti con la medesima epopea della fertilità umana.
Come dicevo, all’interno di queste diramazioni molto ordinate, la gravidanza e poi la maternità di Alina si pone come quella più significativa, perché la donna riceva una diagnosi nefasta sulle condizioni del suo feto e apprende che la bimba nascerebbe con una grave malformazione cerebrale che non si limiterebbe a comprometterne gravemente le capacità basiche, ma probabilmente non ne consentirebbe la sopravvivenza oltre poche settimane, forse giorni, forse ore. Alina deve decidere se ha senso portare il fondo la sua gravidanza e, con il sostegno del compagno Aurelio, conclude che vuole farlo. Stante il pessimismo clinico, la maternità in questo caso potrebbe consistere nel dare la vita a una creatura ma quasi nello stesso momento nel darle morte. È in questa commistione che Guadalupe Nettel si insinua magistralmente, visitando la maternità dal lato insolito di una precaria temporaneità che contiene un processo di distruzione parallelo a quello di creazione, al quale tuttavia la vigoria della forza genitoriale si ribella, accettando di vivere giorno per giorno senza però arretrare nella fissazione di una prospettiva e di una dedizione responsabile (e anzi dotandola di un carattere di assolutezza). Alla sfida si aggrega una bambinaia volitiva, talmente volitiva da instaurare una sottile competizione affettiva.
È un romanzo potentemente femminile, per il tema come per le protagoniste, e la costante declinazione riflessiva dell’intelligenza (in uno stadio di continuo sviluppo) non appanna affatto l’empatia delicata dello sguardo che si posa sui personaggi con una certa mite comprensione per ciascuno di loro; un romanzo intriso di pensiero positivo nel senso alto del termine, cioè ispirato alla convinzione che le persone siano in grado di prendere in mano il proprio destino anche quando la sorte scompagina ogni programma. Parla più di capacità trasformative che di vocazioni, sfiora con discrezione ma esattezza l’attualità (come il quadro dell’aborto in Messico), scorre con grande fluidità e sottigliezza psicologica. Per la seconda volta, nello stesso anno, curiosamente, trovo in un libro l’osservazione che manca, ed è una falla del sistema linguistico, una parola che designi la perdita di un figlio in modo parallelo a come orfano designa la perdita di un genitore (l’altro era Il Colibrì di Veronesi).
Dal punto di vista stilistico Nettel punta in primo luogo alla precisione priva di orpelli, il che l’aiuta a tenere viva e mobile la narrazione ma non consegna righe su cui soffermarsi incantati, salvo quelle sui piccioni (la scrittrice, autrice anche di un Bestiario sentimentale, ha una certa dimestichezza con la compassione verso gli animali). C’è un aspetto formale tra il contemporaneo e il trascurato che consiste nel passaggio sostanziale dalla soggettiva dell’io narrante all’atteggiamento da autore onnisciente in alcuni passaggi sulle vicende di Alina e Aurelio: vengono cioè riferiti episodi e pensieri che Laura non è in grado di conoscere. Potrebbe essere una libertà espressiva o una facile scorciatoia, e in entrambi i casi uno stile meno controllato l’avrebbe assorbita meglio. Ma di fronte a un impianto tanto poderoso sarebbe meschino fare le pulci su simili questioni.
Guadalupe Nettel
La figlia unica
Traduzione di Federica Niola
La Nuova Frontiera
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