Il punto e virgola è ormai in agonia. Data della considerazione: un libro di grammatica del 1934. Visto che stiamo a parlare ancora della stessa cosa, le sue sette vite magari ce l’ha. Oppure è attaccato alle macchine in un caso di accanimento terapeutico?
Se così fosse sarebbe un ritorno alle origini, visto che nel Cinquecento veniva chiamato punto coma (o mezzo coma). Che futuro ti volevi aspettare con un’anagrafe del genere?
Per giunta era spigoloso da affrontare, e nel Cinquecento era normale che si scambiasse frequentemente di posto con i due punti. Anzi, ancora a fine Ottocento ci si lamentava che i due segni si frammischiassero abusivamente.
Ma dimmi tu che assurdità! Viene da borbottare. Il punto e virgola confuso con i due punti! Poi uno ci pensa, e non è tanto peregrino. Dipende da come costruisci la frase. Una volta che sei partito non sono esattamente interscambiabili. Ma un attimo prima della strategia comunicativa sì. È sorprendente, per dire, come Umberto Eco li usasse spingendo al limite il confine. Leggete questa frase
Nella foto l’inquadratura è già data, è ferrea; se l’immagine non ha gambe, quelle gambe io non le vedrò mai, devo solo presupporle: potrebbe essere la foto di un cul-de-jatte.
Eco avrebbe anche potuto spostare le interpunzioni, mettere due punti dove ha messo il punto e virgola, e viceversa. Ma, essendo un amante della dimostrazione originale, preferiva i due punti quando voleva intendere: (due punti) guarda che ti sto facendo un esempio divertente che devi fare lo sforzo di ricondurre al mio ragionamento logico. I due punti li intendeva come una birichinata personale (non era tipo da ostensioni pompose) e un invito alla partecipazione del lettore. Il punto e virgola invece era un segnale di navigazione dentro argomenti collegati ma dati per pacifici, per i quali non fosse necessario soffermarsi sul nesso o la consequenzialità. Il punto e virgola, in linea di principio, non emoziona e non rende partecipi.
Lasciamo un attimo da parte questo svelamento interiore, e non facciamoci sfuggire l’argomento dell’inquadratura, incidentalmente riportato nel passo di Eco. L’eclissi del punto e virgola mi sembra fenomeno evocante il passaggio dalla foto analogica a quella digitale. Con la camera digitale spari una foto dopo l’altra, e poi selezioni quelle che non hanno difetti, tipo che sono venute sfocate; egualmente il testo scritto attuale tende a intasare il campo (in questo caso verbale) di punti o di virgole. Il punto e virgola, invece, è una paziente messa a fuoco manuale (da Serianni viene definito atto a separare “unità coordinate e complesse”). Decidi che la luce cade giusta in quella linea mediana, dove virgola o punto farebbero rispettivamente troppa ombra o troppa luce.
Oggi, a parte alcuni professionisti del settore, scattiamo tutti con la digitale. Non è accettabile, nella frenesia delle sequenze o nella loro rapida eclissi (ed ellissi), indugiare manualmente sulla messa a fuoco.
Insomma, rispetto al 1934, il punto e virgola ha qualche ragione in più per agonizzare.
Il linguista Antonio Frescaroli sosteneva del punto e virgola: “Quando si sostituisce alla virgola è una questione di chiarezza sintattica; quando prende il posto del punto fermo è questione di stile”. È una buona intuizione. Ma in quali circostanze si riesce ad essere più chiari con il punto e virgola?
Sicuramente dentro le serie che contengono virgole, e tuttavia includono più classi di membri. Attribuisce cioè il posto giusto all’interno di elenchi che in parte si riferiscono a un’unica matrice (ad esempio, tutti gli oggetti contenuti in una casa) e in parte sono ricompresi in una sottocategoria (ad esempio gli strumenti musicali; oppure tutti i regali di nozze, che al contrario degli oggetti musicali sarebbe possibile identificare solo dai padroni di casa).
Una miniera di questi elenchi sono i libri di Georges Perec, che era maniaco delle liste. Ce ne sono a iosa nel romanzo “La vita. Istruzioni per l’uso”, che descrive minuziosamente gli appartamenti di un condominio. Ad esempio, ecco cosa è accumulato sulla sommità di un mobile:
un pelapatate, una frusta per la maionese con un piccolo imbuto che fa cadere l’olio goccia a goccia, un aggeggio per tagliare le uova sode a fette sottili, un altro per fare i riccioli di burro, una specie di girabecchino complicatissimo che deve essere un semplice cavaturaccioli perfezionato; dei ready made d’ispirazione surrealista; una scatola di seven up, dei fiori secchi messi sottovetro in certi piccoli ambienti romantici o rococò di cartone dipinto e stoffa, deliziosi trompe-l’oeil dove ogni particolare è riprodotto con rara minuzia, il centrino di pizzo sopra un tavolinetto alto due centimetri…
La separazione di Perec ha un valore letterario perché crea degli aggregati di senso dentro un elenco che affidato alla disgiunzione delle sole virgole collasserebbe l’interesse del lettore.
Ci sono elenchi, in cui la separazione introdotta dal punto e virgola è essenziale per i diritti dei cittadini. Bice Mortara Garavelli cita giustamente gli articoli della Costituzione.
In altri casi, il punto e virgola accompagna lo sviluppo logico di un argomentare complesso. L’Enciclopedia delle scienze filosofiche di Hegel è probabilmente una delle pubblicazioni con più punti e virgole della storia. Aprendo a caso:
In sé qui si ha l’assoluta relazione del contenuto e della forma, cioè il convertirsi dell’uno nell’altro; cosicché il contenuto non è altro che il convertirsi della forma in contenuto, e la forma null’altro che il convertirsi del contenuto in forma.
Oppure
Ciò che è posto di fatto, è l’unità del soggetto e del predicato come il concetto stesso; questo è ciò che dà un contenuto al vuoto, è della copula;
La più ortodossa vocazione del punto e virgola è nelle proposizioni avversative. Se parlo di quel che fanno gli uni, meglio sarà frapporre il punto e virgola a quel che combinano gli altri.
Ancora, il punto e virgola consente la ripetizione di un vocabolo senza che ne esca danneggiato lo stile, anzi; ma appunto, qui entriamo in questioni di stile, che secondo Frescaroli chiamerebbero in causa l’alternativa del punto.
Giacomo Devoto, altro grande linguista, distingueva l’interpunzione intellettuale dall’interpunzione affettiva. Ecco, bisogna riconoscere che il punto e virgola è un’interpunzione intellettuale, e che di affettivo non ha proprio nulla. Per questo paga dazio a una scrittura che, sia essa personale o giornalistica, punta sul sensazionalismo per far vibrare l’attenzione, e quindi predilige regolarmente lo stacco del punto. Inoltre, il punto e virgola è assai utile per districarsi tra le subordinate, e (altra questione stilistica) per evidenziare quella dipendente rispetto a quella principale, Ma dato che – malauguratamente – il criterio scelto oggi per addomesticare le subordinate è la loro potatura, il punto e virgola non trova spazi dove agganciarsi. Diventa metafora di se stesso, col suo fisico sbilenco, sproporzionato nel peso e tagliato in due.
È quel senso di negoziazione intermedia del punto e virgola che lo condanna nel momento in cui si vuole accentuare l’espressività della frase. Carducci poteva scrivere: “si appoggiano, un di qua, un di là, dai due lati della strada, a un piede; e discutono”. Però uno scrittore d’oggi (diversamente da Pirandello o Tozzi, che accarezzavano i loro punti e virgola) li farebbe discutere dopo il punto, avvertendo che lo stacco più netto (la pausa di respiro più marcata, per chi si ostina a considerare lo scritto un copione per la recitazione del parlato) preannuncia una discussione più vigorosa, o all’opposto chiude la fase dell’annusata sospettoso e apre a una chiacchierata cooperativa.
Se c’è una funzione stilistica nella quale mi pare il p.v. (non è poi così brutto da siglare, vero?) possa ancora tenzonare col punto è quella di spezzare i pensieri dei personaggi con la voce extra-diegetica del narratore.
Un corpus epistolare dell’Ottocento reperibile in digitale testimonia che in 1300 lettere sono stati spesi 24.429 punti, 35.141 virgole, 3.166 punti e virgola e 2.457 due punti. Oggi che la comunicazione è soprattutto digitale il punto e virgola va giusto a sbaffare in un emoticon cipiglioso o ammiccante. Quanto alla stampa, mi sono cimentato prima di scrivere quest’articolo con la settantina di pagine di Repubblica e del suo inserto e con Internazionale, e non ne ho trovato uno. Non sono un correttore di bozze ma non penso che l’occhio abbia fallito più di tanto. In compenso, ancora nel 2018, Paola Baratter ha avuto il coraggio di scrivere per Carocci una monografia interessantissima e completa: “Il punto e virgola. Storia e usi di un segno”.
Prima di proclamarne la scomparsa si deve pur sempre diffidarne, perché come ogni segno di interpunzione sguscia sia dentro che fuori, spesso al di là dell’intenzione degli autori. Silvia Avallone scrisse nel 2010 un articolo sul Corriere della Sera per chiamare a raccolta a favore del punto e virgola, ma tanto per dare il buon esempio omise di metterne nel suo testo; di contro il Manifesto Futurista di Marinetti che propagandava l’abolizione tutta della punteggiatura, di punti e virgola era pieno zeppo.
Forse per rifiorire dovrebbe assumere un’identità più coraggiosa e meno dorotea, corrispondere a quell’ideale che Michele Mari ed Ernesto Franco hanno descritto, quello di un ossimoro che separa collegando e collega separando – e si riprende tutta l’autorevolezza di un simile equilibrismo – oppure cessa di essere quella frazione che indica meno del punto e più della virgola.
Non dobbiamo far coincidere per forza l’afflosciamento di un segno interpuntivo con un prosciugamento della sintassi. Meno evidentemente, altri segni moltiplicano la loro identità. Ad esempio, per il modo in cui è impiegato, il punto e a capo sta emancipandosi sintatticamente dal progenitore, il punto fermo. Il punto e virgola, lui, continuerà a costituire un delicato virtuosismo per pochi e uno scrupolo di chiarezza per altri, ma sempre meno. Il mutamento nella lingua non nuoce mai quando opera dentro menti consapevoli, e da quelle si estende ai flussi di scrittura corrente. Ma quando è solo che uno ha fretta di scendere in strada, e per quello butta i vestiti per aria, beh, quella è trascuratezza; e una rogna per chi deve ripiegarli nell’armadio.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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