Sommersione
L’amore è cieco ma l’odio ci vede benissimo. Specialmente se è quella forma di odio generalizzato che non ha bisogno di separare e distinguere, e solo alza una marea di sordo rancore che finisce per inondare pure chi lo prova. Di tale sentimento trasuda il protagonista di Sommersione, un pescatore che mena la sua esistenza in un luogo immaginario e prototipico, l’Isola, senza centro né periferia, “le cui terre emerse assumono l’aspetto di un elastico teso che pare sempre sul punto di spezzarsi, che “resiste come ultimo baluardo dell’umanità, stretta tra la palude e il mare in un abbraccio mortale, e al tempo stesso seducente, al quale non si può sfuggire”, annualmente bilanciata nel numero dei nati e dei morti. I suoi abitanti sono essi stessi erosioni ormai separate della Terraferma, invecchiano nelle loro attività scandite e monotone per lo più legate alla pesca, ruotano tra i due poli aggreganti della parrocchia e della Taverna. Inquadrato in una struttura monologica e riflessiva che ripercorre gli eventi e il luogo della sua esistenza giunta agli ottant’anni, il pescatore è vedovo di una moglie al suo sguardo insignificante se non per esercitarvi violenza ma con il pregio di essere donna da matrimonio e non “da ficcare” (binomio in cui l’insegnamento genitoriale esauriva la categorizzazione femminile), ha una figlia che vive lontana sulla Terraferma e attende senza emozione la morte del genitore, compatta in una sorta di Nemico Unico tutti quelli che conosce ( e dei quali esclude ogni movente disinteressato nelle azioni), custodisce un segreto riguardante un’omissione di soccorso che deduce di avere compiuto più dallo scandaglio del suo stato emotivo che dalla nitidezza dei ricordi, solo con il mare e i riti della pesca intrattiene un rispettoso e simbiotico rapporto di scambio.
Questo non è un romanzo in cui accadano troppe cose significative. E’ una storia di spreco esistenziale in cui Sandro Frizziero vuole mettere a fuoco la psiche di un personaggio che non ci vuole rendere eccezionale e memorabile, neppure in senso spregevole: vuole invece indurci il sospetto che quell’ometto qualunque sia replicabile e replicato, e la sua differenza più profonda dall’habitat umano che lo circonda sia di rivelare più schiettamente quel che altri nascondono dietro l’ipocrisia. Per essere precisi, non è che questo personaggio, che rimane dall’inizio alla fine senza nome, sia meno falso e pavido; e se dipendesse da lui non ammetterebbe affatto di sperare meschinamente nella disgrazia altrui. Frizziero glielo tira fuori dandogli del tu.
L’uso della seconda persona singolare, il tu narrante, è una tecnica che comincia ad apparire più spesso nel romanzo contemporaneo: è una variante formale interessante ma per reggere il peso di un romanzo deve possedere una ragione forte. Sommersione ce l’ha: il protagonista non ha la struttura culturale sufficiente per descrivere consapevolmente il livello e la qualità del suo odio, e l’io narrante lo avrebbe reso meno credibile o meno preciso, mentre la terza persona, anche fosse stata soggettiva, lo avrebbe distanziato o sarebbe stata costretta a giudicarlo. Raccontandolo col tu, come qualcuno che gli sta traducendo asetticamente i suoi stati di coscienza, Frizziero ottiene di fotografarne i sentimenti.
Max Scheler qualificò il resentissement come “autoavvelenamento dell’anima” e “stato psichico permamente” che offre all’osservazione “impulso di vendetta, odio, cattiveria, invidia, malignità, perfidia”. Alla sua trasposizione letteraria provvide Dostoevskij, con il proprio uomo del sottosuolo; e uomini del sottosuolo colarono dalla penna autobiografica di Knut Hamsun e John Fante. Ma erano intellettuali incarogniti dal mancato riconoscimento pubblico (e che non avevano bisogno del prestito di un tu). Il pescatore di Frizziero non ha da recriminare sulla squilibrata assegnazione del merito. Condivide sbiadito destino e putritudine fangosa con gli abitanti dell’Isola, non ambisce a smarcarsene né si illude veramente di sovrastarli. Non avrebbe apparente ragione di invidiare quegli “uomini-paguro (…), sospettosi e diffidenti come merli, pronti a fuggire se qualcuno li osserva anche da lontano”, e che non sono bravi a cogliere le occasioni della vita quanto lo sono ad aspettare che la marea spinga le conocchie sul bagnasciuga. E però la fisionomia antropo-geologica dell’Isola è un laboratorio perfetto per mostrare il rovescio della medaglia di far dipendere il sé dallo sguardo dell’altro, e il meccanismo circolare dell’odio che ciò innesta.
Nonostante abbia scelto un luogo letterario sprofondato nell’anacronismo e la desuetudine, Frizziero voleva probabilmente servirsene per richiamare in modo non convenzionale una certa decadenza empatica nella Terraferma che calpestiamo. Nemmeno mi pare un caso (ed è psicologicamente assai azzeccato) che il protagonista non solo non abbia la forza né l’intenzione di innovare quella vita che lo lascia inasprito, ma sia un feroce conservatore sociale.
Solo col mare riesce ad acconciarsi, e infine persino provare pietà per i pesci, proprio perché “lasciano questo mondo in maniera nobile, senza dare fastidio a nessuno. Boccheggiano, tremano e muoiono tutti allo stesso modo” (ciò che secondo il pescatore è proprio anche dell’uomo, salvo che fa più casino). Sulla prospettiva dalla barca, Frizziero, quasi un Melville lagunare, conduce la sua notevole scrittura a un livello di crudo e dissonante lirismo che non tanti narratori in Italia possono attualmente permettersi.
Scrivi un commento