Lontano dalle luci degli spettacoli metropolitani, c’è un’Italia piccola e periferica che pratica una tenace resistenza culturale, della cui esistenza e vitalità si può, ahimè, venire al corrente solo per caso. E così, grazie a una piacevole conoscenza estiva, ho appreso che due anni fa il docente di letteratura spagnola Luigi Giuliani ha pubblicato una traduzione in romanesco dei Sonetti di Shakespeare (Li sonetti de Shakespeare) per l’editore cuccugnaio (qui traduco io: di Foligno) “Il Formichiere”. Ho saputo che l’opera è lodatissima dalla Treccani grazie al riuscito intento di restituire, grazie al dialetto, la freschezza e l’espressività originaria a quel meraviglioso canzoniere (Giuliani aveva già tradotto i sonetti in spagnolo).
E ho scoperto che a metterle in scena per primo ci ha pensato Maurizio Mosetti con il suo Laboratorio Teatrale in quel di Colleferro, paese che per sua sventura è noto ai più solo per il velo di orrore subumano e suburbano squarciato dall’omicidio di Willy Montesi. Il Laboratorio non si cura solo di allevare giovanotti all’arte della recitazione, ma anzi predilige trascinare sul palco dilettanti di età non più verde (in qualche occasione anche ottantenni) mostrando di possedere idee raffinate su quel che significa coinvolgere e scuotere il territorio. Lo spettacolo, ribattezzato Li sonetti de coso, azzarda un approccio multimediale, e i versi vengono riadattati alternando il romanesco e l’italiano – che è un modo efficace di condurre sperimentazione a misura d’uomo – introdotti e chiusi da una convincente lettura di Gillian Hassan, moglie di Mosetti da un tempo che… non si dice ma è davvero tanto, e organizzatrice di altri significativi momenti di animazione culturale alla presidenza dell’associazione Gruppo Logos.
Che sia toccato a Mosetti di occuparsi dei sonetti romanizzati era per lo Shakespeare in salsa trasteverina un punto d’arrivo quasi obbligato: è in assoluto uno dei migliori interpreti dei sonetti di Gioacchino Belli (ascoltatene qualcuno dal Lunario sul canale YouTube del Centro Studi Giuseppe Belli) e molti anni fa ne prese spunto per uno spettacolo con trio di jazz (si chiamava La Bbellezza, concerto per voce, flauto, clarinetto e chitarra, che conobbe anche i fasti del Teatro Argentina). Una nota per chi dovesse trovare troppo rock l’accostamento dei sonetti belliani: fra le rivelazioni di Luigi Giuliani anche quella che alcuni versi belliani citano sonetti shakespeariani.
I giornali non hanno più spazio nemmeno per dare adeguatamente conto delle stagioni teatrali, figuriamoci andare a pescare dietro le quinte. Però silenziosamente c’è un’Italia che crede ancora nella cultura, e se non ci inciampi per caso non la conosci mai. E non si sa se è più confortante sapere che esiste o più sconfortante constatare quanto è costretta nei suoi margini.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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