A sessant’anni dalla sua morte
Ri/Leggere il grande romanzo di Camus. Con l’aiuto di una sua auto-recensione.
Il suo titolo è “Lo straniero”. L’apice della drammaticità è l’omicidio che segue la tensione tra un uomo di origini francese e un arabo.
Il protagonista sembra incapace di andare oltre le sensazioni superficiali che gli trasmette il presente, come si dice abitualmente facciano i ragazzi che fissano per ore lo schermo dello smartphone. Quando sono passati oltre 75 anni dalla scrittura di un libro che quasi abbraccia il presente è la prova che si tratta di un’opera universale, che avrà sempre qualcosa da dire sul mondo che viviamo nel momento in cui lo leggiamo: specie se tratteggia un’esperienza interiore che segna l’umanità in quanto tale, l’esperienza dell’assurdo. L’incipit dello Straniero è uno dei più noti della letteratura del Novecento: “Oggi, mia madre è morta. O forse ieri, non lo so”. Non è questa una frase che definiremmo assurda?Senza che sia stato ancora pronunciato un solo aggettivo, essa pesa come una condanna immediata di colui che la pronuncia. Ma l’assurdo si rivelerà non tanto nell’assurdità della frase quanto nell’assurdità della sua condanna. Abilmente Camus, alla fine del romanzo, avrà posto noi giudicanti dal lato dell’assurdo.
A proposito di giudicanti e di giustizia, il miglior modo per rendere giustizia alla trama del romanzo è riepilogarla in poche righe, in rispetto dell’essenzialità perseguita dal breve e densissimo testo. Meursault viene avvertito dall’ospizio della morte di sua madre. Arriva sul posto e segue con distacco la cerimonia, rifiutandosi di far aprire la bara per vedere la madre una volta di più. Torma a casa, incontra una ragazza, va a vedere un film comico con lei, accetta con indifferenza la proposta di matrimonio che da lei riceve; fa amicizia con un balordo che ha una lite pendente con un arabo al quale avrebbe molestato la sorella, va in spiaggia a fare un bagno, si fa coinvolgere in una rissa con l’arabo e dei suoi compagni, la rissa si conclude con una coltellata che ferisce al viso il suo sodale, torna verso la riva e incrocia di nuovo l’arabo (che mai sarà gratificato di un nome nel libro), a distanza vede splendere la lama e addosso sente l’oppressione del sole. Alloraspara. E quando si rende conto che ha sparato, e che ha colpito l’arabo, spara altre quattro volte, viene arrestato, giudicato in tribunale e mai oppone una giustificazione (tranne quella del sole, che suscita l’ilarità dei presenti), assiste olimpicamente al conflitto impari tra l’accusa e la difesa, viene condannato a morte, torna in carcere dove viene assalito dall’unico moto furioso scagliandosi contro il prete che cerca di estorcergli un pentimento, si apre per la prima volta alla tenera indifferenza del mondo.
Il libro si compone di due parti, la prima sino all’omicidio, la seconda centrata sul giudizio. Ho ascoltato Raffaele La Capria dire che le sono segnate da due stili differenti, frasi brevi nella fase che riporta il punto di vista di Meursault (la prima) e stile più costruito nella successiva, perché gli episodi vengono raccontati per come sono visti dal senso comune. Personalmente non ho rilevato questa divisione, anche perché la stessa irruzione delle voci del mondo viene filtrata dall’osservazione dell’io narrante di Meursault. Ma ciò che fortemente lega le parti è che, contrariamente a quanto ci aspetteremmo, rivivere i fatti attraverso la rappresentazione dell’avvocato, del pubblico ministero, del giudice, dei testimoni non ci convince dell’immoralità del personaggio, e quasi ce lo rende più vicino. Ci susciterebbe empatia, forse, la considerazione della vittima, ma il giudizio morale, e addirittura quello penale, la saltano a piè pari (nel 2015 lo scrittore algerino Kamel Daoud ha sentito l’obbligo di riempire questo vuoto con un ideale seguito dello Straniero, Il caso Meursault, premiato con il Gouncourt) per focalizzarsi sulla sensibilità della vittima, fondandone la prova inequivocabile sulla condotta tenuta al funerale della madre.
Il suo avvocato, nominato d’ufficio, è preoccupato di quella china e gli domanda se egli ha sofferto per la madre. “Questa domanda mi ha stupito e mi è parso che sarei stato imbarazzato se avessi dovuto farla a un altro. Gli ho risposto che avevo perso l’abitudine di interrogare me stesso, e così mi era difficile informarlo. Naturalmente volevo bene alla mamma, ma questo non significava nulla. Tutte le persone hanno, una volta o l’altra desiderato la morte della persona che amano. Quel che potevo dire con sicurezza è che avrei preferito che la mamma non fosse morta. Ma l’avvocato non mi è parso soddisfatto. “Questo non basta” ha detto.
Ogni commento al romanzo ruota intorno al’assurdo: non però la prefazione che Albert Camus scrisse all’edizione americana ( che si trova riportata sull’edizione francese nella Pleiade delle opere dello scrittore).
“Ho riassunto Lo Straniero, tempo fa, in una frase paradossale: nella nostra società ogni uomo che non piange durante il seppellimento della madre rischia di essere condannato a morte. Volevo dire solamente che l’eroe è condannato perché non gioca il gioco. In questo senso egli è straniero nella società in cui vive e vaga ai margini, nei sobborghi della vita privata, solitaria, sensuale. E per questo che i lettori sono stati tentati di considerarlo un relitto. Si avrà tuttavia un’idea più esatta del personaggio, più conforme in ogni caso alle intenzioni del suo autore, se ci si domanda in cosa Meursault non gioca il gioco. La risposta è semplice: egli rifiuta di mentire. Mentire non è solamente affermare quello che non è. E’ anche, e soprattutto dire più di quello che è e, per ciò che concerne il cuore umano, dire più di ciò che si sente. Meursault, contrariamente alle apparenza, non vuol semplificare la vita. Egli rifiuta di esprimere sentimenti maggiori di quelli che prova e subito la società si sente minacciata. Gli si domanda se è dispiaciuto del suo crimine, secondo la formula consacrata. Egli risponde che al riguardo prova più noia che vero dispiacere. E questa sfumatura lo condanna.
Meursault per me non è dunque un relitto ma un uomo povero e nudo, amante del sole che non lascia ombre. Lungi dall’essere privo di ogni sensibilità, è animato da una passione profonda, la passione dell’assoluto e della verità. Si tratta di una verità ancora negativa, la verità di essere e di sentire, ma senza la quale nessuna conquista su sé e sul mondo sarà mai possibile. Non ci si sbaglierebbe troppo dunque leggendo Lo Straniero come la storia di un uomo che senza alcuna attitudine eroica, accetta di morire per la verità. Mi è anche capitato di dire che, paradossalmente, avevo cercato di raffigurare nel mio personaggio il solo Cristo che noi meritiamo”.
Siccome al centro dello Straniero è latente la domanda se valga o meno la pena di vivere (e quella sottostante su cosa significhi vivere), è interessante confrontare questo amore per la verità di Meursault con quanto Camus scrive all’inizio del Mito di Sisifo, dopo avere premesso che il suicidio è il solo problema filosofico veramente serio: “Si può giudicare se è un problema è più urgente di un altro dalle azioni che implica. Io non ho veduto alcuno morire per l’argomento ontologico. Galileo, che era in possesso di un’importante verità scientifica, la rinnegò con la più grande facilità quando si trovò in pericolo di vita. In un certo senso fece bene perché tale verità non valeva il rogo”.
Nel Mito di Sisifo, del quale alcuni reputano che Lo Straniero sia la traslazione narrativa, Camus mette continuamente a fuoco l’assurdo, però con meno incisività di come riesce a rappresentarlo nel romanzo: forse perchè, essendoci il concetto in qualche modo familiare, stringervi addosso il nodo scorsoio del ragionamento finisce per intorpidircene la percezione. Camus ne dà diverse definizioni: la più poetica è “il peccato senza Dio”. La più decisiva è “il divario tra lo spirito che desidera e il mondo che lo delude, è la nostalgia di unità” (anche “L’uomo si sente straniero. Questo esilio è senza appello. Questo divorzio tra l’uomo e la sua vita, l’attore e la scena, è il sentimento dell’assurdo”). E’ questa appartenenza dell’assurdo alla relazione tra l’essere e il mondo che vizia di assurdo entrambi i termini della relazione. E la ragione per cui non si è mai assurdi da soli.
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