Ufficio visti
Ogni vita ha avuto un senso se la possiamo ricordare. E’ uno dei modi in cui si potrebbe sintetizzare
l’ultracinquantennale sforzo artistico di Christian Boltanski, di cui il Centre Pompidou a Parigi espone un’ampia retrospettiva a Parigi. Per questo egli scava in archivi fotografici e di oggetti o ne crea, e li trasforma in blocchi, reliquiari, mausolei.
Poche opere contemporanee sono ispirate da un sentimento profondamente religioso come quella di Boltanski che però, mentre mette in scena forme di organizzazione dello spazio e della luce ispirate- anche nella luce languida- ai rituali di commemorazione cristiani, cerca di farne della cappelle laiche in cui ciascun possa solidarizzare nel medesimo riconoscimento del dolore per la fragilità dell’esistenza e nell’epifania della memoria strappata all’oblio. Per ottenere il suo scopo, dunque, Boltanski sceglie di drammatizzare l’assenza attraverso codici espressivi sobri e reiterati, nei quali la riduzione degli elementi (su tutti predominano i visi) evita che l’attenzione si disperda. Gli assemblaggi fotografici sono lo strumento più frequente: i soggetti collettivi che li popolano sono raggruppati dentro insiemi opposti- come i ragazzi di una classe ebrea durante il nazismo o gli svizzeri, scelti per la massima distanza dagli orrori della guerra a causa della neutralità- e però quell’appartenenza non è un modo per confonderli in un gruppo, ma al contrario la traccia per recuperarne la singolarità. In un’altra opera, Après/Pics, si tratta degli alunni di una scuola in piccolo villaggio che ogni anno Boltanski andava a fotografare, stampando due esemplari, uno venduto a prezzo irrisorio alla famiglia e l’altro conservato per il sottostante castello adibito a museo di arte contemporanea, a delineare una linea di confine tra il valore venale di un oggetto e il suo valore artistico, e anche ad attestare la sua proteiforme dignità. Pur se cammina su binari preferenziali la fantasia catalogante di Boltanski sa imboccare la strada dell’imprevedibilità: come nella recente opera Le Terril Grand-Hornu che consiste in una pila di giacche da lavoro scure appartenute a minatori della regione Grand-Hornu (ancora più efficace, stesa come ai piedi dell’altra opera gemella, Le registres du Grand-Hornu, con la galleria di foto di quegli stessi operai e le date di inizio e fine del loro impiego; o nel famoso Coeur, che in origine era la registrazione amplificata dei battiti cardiaci dell’artista ritmata visivamente dall’intermittenza di una lampadina appesa a un filo, e successivamente è divenuta la registrazione di 70.000 cuori provenienti dal mondo conservata sull’isola di Teshima in Giappone (luogo di pellegrinaggio per i nipponici che vengono ad ascoltare i battiti dei loro cari). Tutto quel che tocca Boltanski diventa struggente: accadde anche per quell’opera, purtroppo assente dalla retrospettiva, in cui ammise implicitamente il rischio di fallire nello scavare una via di fuga dall’anonimato. Cosa altro era, se non un ossario onomastico, l’esposizione di 2369 elenchi telefonici del mondo, dalla Guinea alla Croazia?
Christian Boltanski
Faire son temps
Centre Pompidou Parigi
Fino al 16 marzo
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