“Botticelli chi?” avrebbe risposto qualcuno che a inizio Ottocento fosse stato interpellato sul pittore che tanto celebre era stato tre secoli prima (ma d’altronde avrebbero risposto anche Bach chi?), considerato quasi una reincarnazione di Apelle. A un simile oblio aveva contribuito Giorgio Vasari che nella sua Storia ne aveva, a parte che sminuito l’opera, deprecato temperamento, stravaganze, la perdigiornitudine di illustrare la Divina Commedia e la morte in miseria. Contribuirono Ruskin, i pre-raffaelliti e Warburg a riportarlo in auge, preludendo al mito pop che sarebbe divenuta la sua Venere nel secondo Novecento.
Si conclude questo mese la mostra che a Parigi il museo Jacquemart-André ha dedicato al grande artista fiorentino, un’antologica di dimensioni ridotte ma di grande intelligenza e completezza e un fil rouge piuttosto intrigante, di cui dirò fra un attimo.
Andando per semplificazioni, la pittura di Botticelli si può dividere in tre principali filoni. Quello delle Madonne con bambino (ma anche della triade con San Giovanni Battista o l’Adorazione), nella cui evoluzione si legge un graduale distacco dall’imitazione del maestro Filippo Lippi e un avvicinamento ad Andrea del Verrocchio, con un tratto psicologico tuttavia di assoluta personalità connotato nella malinconia della Vergine – e a mio parere anche nell’alterigia nobiliare mutuata dal suo ambiente e trasmessa ad esempio ai Re Magi.
Il secondo, quello che avrebbe nel lungo periodo dominato la posterità, è il passaggio dal soggetto religioso a quello mitologico cui lo spingeva il circolo mediceo, e in particolare la creazione di una figura femminile idealtipica e allegorica di bellezza, che avrebbe assunto varie e sfumate differenziazioni, compresa la Venere (ma anche la bellica Minerva) e il ritratto di donna che dà il volto all’affiche della mostra, e che alcuni (criticati) interpreti identificano nel personaggio storico di Simonetta Vespucci (così la tela viene alternativamente intitolata Figura allegorica o La Bella Simonetta), platonica innamorata di Giuliano de’ Medici.
Le Bella Simonetta introduce altresì al filone dei ritratti, che tutti presero progressivamente a stagliarsi su uno sfondo monocromo e senza prospettiva. Un carattere che si accentuò con l’ingresso di Botticelli tra gli adepti di Savonarola, allontanandolo da impensabili arditezze quali i nudi della Venere, determinando nelle sue pitture una maggiore asciuttezza narrativa e negli ultimi anni anche uno spigoloso indurimento dei tratti che probabilmente non gli giovò (e che più di ogni cosa, oltre al fatto puro e semplice della vicinanza a Savonarola, tanto male dispose Giorgio Vasari).
Questa mostra, oltre all’abilità di sfruttare il limitato materiale per dar conto di simili traiettorie, invita a un particolare angolo di osservazione, la dimensione imprenditoriale della bottega di Alessandro Filipepi (veri dati anagrafici dietro il none d’arte di Sandro Botticelli), evidenziando almeno tre profili meno conosciuti e considerati: l’esistenza di una vasta produzione non pittorica, concernente tappezzeria, intarsi, ricami e altri decori; l’utilizzo ripetuto di pochi “marchi di fabbrica” (come la Vergine) mediante loro ricontestualizzazioni dipendenti dalla committenza; l’ampia delega di funzioni all’interno delle opere, e quindi l’esistenza ante litteram di un concetto di autorialità meno rigorosamente legato alla fattura personale di ogni dettaglio. Rileggendo questi spunti non soltanto quali segni di genialità botticelliano ma come velo sollevato su alcune pratiche quattro-cinquecentesche, meglio si medita su quanto certe apparenti fratture prodottesi nell’arte moderna e contemporanea abbiano radici impensabilmente remote.
La forza dell’autorialità si può constatare alla morte. E dunque, nonostante la sopravvivenza della bottega, la dolcezza della linea botticelliana si smarrì immediatamente, forse anche perché si era già irrigidita per adattarsi alla severità dell’ispirazione savonaroliana.
Botticelli artiste e designer
Musée Jacquemart-André, Parigi
Fino al 24 gennaio 2022
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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