Quante volte malediciamo le didascalie museali perché rendono inutilmente astruse le opere di una mostra? Beh, per una volta il piacere di leggerle quasi eguaglia quello dell’arte esposta, perché a scriverle è stato lo stesso fotografo celebrato dalla mostra, Frank Horvat, a Torino ai Musei Reali fino al 20 maggio 2018, un vero intellettuale, oltre che uno sperimentatore a tutto campo dell’obiettivo. L’italo-croato-francese, classe 1928, si è preso il gusto di ordinare il suo lavoro, proponendo dodici capitoli di un ideale catalogo personale, ciascuno dei quali, per la chiave in cui viene presentato, ben potrebbe ispirare una mostra collettiva. Non ci sarebbe di partenza alcuna originalità nel rubricare una serie di foto sotto la voce “Autoritratti” e nemmeno sotto la voce “Due”, se con quest’ultima ci si intende riferire solo a coppie di soggetti. Ma i due soccorritori balneari in esercitazione, la guardia civil a spasso con la moglie in una via deserta del paese, il signore con i due cani che spuntano dal cappotto mentre conversa per strada con qualcuno che ha incontrato o le due querce in un diverso stadio di età sono ogni volta uno sguardo vergine verso la dualità, capace di scomporre all’infinito la categoria proprio mentre la proclama. Horvath, che pure è un fotografo discretamente classico, si diverte a porre in dubbio i dogmi di alcune ortodossie. Aveva ragione Cartier-Bresson a sostenere che il fotografo deve essere “invisibile”? Forse sì, ma nel senso che deve essere invisibile la macchina, non la persona del fotografo. E così, scrive Horvat, “alle volte capita che la persona di fronte a me, per sorpresa, per paura, per rabbia o magari per tenerezza, rivolga un vero sguardo a me, non alla macchina fotografica. Se riesco a coglierlo avrò scattato una fotografia che merita di essere fatta”. Horvat non si nega nessuna delle missioni del fotografo: scoprire cosa si trova fuori luogo, rubacchiare intimità, sospendere il tempo, cercare la condizione umana nei problemi delle persone, in questo caso facendo del suo meglio “per suggerire i problemi piuttosto che sottolinearli”, visto che “il confine tra il distacco eccessivo e l’invadenza eccessiva non è mai evidente, nemmeno per un fotografo”.
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