Ufficio Visti
Se vi piace usare l’argomento (che devo dire comincia a essere chiaramente obsoleto): “Ah! Nell’arte lo spazio maggiore sempre ai maschi occidentali! Ma se vedeste invece…” ho un nome perfetto da passarvi. La messicana Gabriela Iturbide è tra le più grandi fotografie viventi: potrei dire, per stile e intenzioni sociali, la Cartier Bresson del Messico se questo non mi facesse ripiombare nel richiamato stereotipo. E per la verità non mi viene voglia di dirlo, perché Iturbide ha uno sguardo e uno stile tutto suo e l’incantevole capacità di semplificare un simbolismo visionario chiaramente esotico, adattandolo a contesti quotidiani. La mostra che la Fondation Cartier a Parigi dedica a questa settantaseienne artista si chiama “Heliotrope”, come la via dove si trova il suo originale atelier, anch’esso immortalato per l’occasione ed esibisce tutte le fasi della sua carriera, rigorosamente percorsa in bianco e nero. Iturbide è famosa soprattutto per le sue foto di ritratti dentro comunità indigene, come quelle del popolo Seri del deserto del Sonora o delle donne zapoteche di Oaxaca: una donna zapoteca è diventata in Messico quel che nel mondo è diventata la ragazza afgana di Steve McCurry. Si tratta di “Nostra signora delle Iguane”, una venditrice mercatale che si metteva in testa delle iguane per attirare l’attenzione. Iturbide le ha chiesto di scattare, la donna ha posato le iguane per terra ed è cominciata la paziente ricerca della foto giusta, che si è materializzata quando le iguane hanno tutte improvvisamente alzato la testa come per mettersi in posa o somigliare alle oche di una porcellana inglese del Settecento. I chicano hanno deciso di fare della foto un manifesto, La medusa juchiteca: Iturbide ammette che quella foto è uscita dal suo dominio, che è diventata altro, e ne è felice. Il suo occhio si è posato anche su comunità urbane, come le bande di cholo di Los Angeles e Tijuana, e si è esteso in Sudamerica, in India, in Europa. Progressivamente ha abbandonato il soggetto umano, senza però rinunciare a quello che Iturbide definisce il proprio obiettivo, “cercare lo straordinario nell’ordinario”. Iturbide oggi fotografa dettagli di ambienti, selvaggi o abitati, e ha la capacità di rendere bellissimo e ricco di senso ciò che prima di essere incorniciato da lei appariva comune. Che nessuno abbia mai reso tanto espressivi (e commoventi!) i cactus si può capire, quasi te li davano per colazione. Ma perché dovrebbe essere interessante il quadrante di un orologio stradale sullo sfondo dei cavi elettrici su cui sono posati gli uccelli o le palline di un campo da golf viste sotto la rete di protezione in alto? O una giacca stesa sopra un ramo? Non saprei spiegarvelo esattamente: a volte capisci che c’è della maestria nel cogliere le forme di un assemblaggio che tende alla fusione (dei pesci sopra un bancone, degli uccelli sopra una piazza intorno a una bicicletta), altre volte intuisci che è l’attitudine a creare un’angolazione anomala, in altre sembra proprio che qualsiasi cosa lei fotografi diventi oro e poesia. In questi termini, e con questa varietà, non so in quanti fotografi l’ho vista: certo non più di dieci. Chiedere lumi a Iturbide sarebbe vano, non ha nessuna intenzione di celebrare la sua genialità. Un’altra foto incantevole e celebre si limita a inquadrare in India quattro cani randagi sopra una scogliera, scuri nell’oscuro. Un’epifania. Come ha fatto a cogliere quel momento? “Me li ha indicati mio figlio” dichiarò in un’intervista.
Graciela Iturbide
Heliotropo
Fondation Cartier pour l’Art Contemporaine, Parigi
Fino al 29 maggio 2022
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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