Ufficio Visti
Preferirei di no. Due secoli prima di Bartleby questa frase si potrebbe attribuire a Guido Reni, per le circostanze, non sempre perfettamente chiare, che lo indussero a rifiutare commesse importanti, come gli affreschi per la cappella di San Gennaro a Napoli o la cappella paolina nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma. Sicuramente alla radice non c’era la pigrizia. Reni era un pittore instancabile, e in tal senso fu costretto, specie negli ultimi anni di vita, dalla necessità di pagare i debiti di gioco: quel suo inestirpabile vizio per il quale anche Il Domenichino si lamentava che gli rompesse i coglioni colle carte quando condividevano la residenza. E chi lo avrebbe mai detto così peccatore, a giudicare dai suoi soggetti religiosi che gli meritarono l’appellativo Il Divino, anche perché riusciva a fondere in una personale visione della pittura classica la grazia di Raffaello e il naturalismo di Caravaggio? Per quanto…
Ma procediamo con ordine. Nato a Bologna nel 1575, formatosi alla scuola di Annibale Carracci, influenzato dalle tele del Cavalier d’Arpino, folgorato lungo il suo percorso dalla scoperta di Caravaggio, fondatore di una produttivissima bottega, così prestigiosa che tanti millantavano di esservi transitati, e padrone e di un sistema da semi-fabbrica con 80 copisti che lo rendeva un precursore di Damien Hirst e un analogo a Rubens, Reni fa parte di quella schiera di artisti celebratissimi nella loro epoca, che a un certo punto della posterità scivolano nell’oblio. Così fu per tutto l’Ottocento (a partire da una brusca stroncatura di John Ruskin, ma forse già pioveva sul bagnato) fino a metà Novecento, quando cominciò la sua rivisitazione grazie a una mostra nella sua Bologna allestita da Roberto Longhi e successivamente per l’attenzione che gli tributò Federico Zeri.
La mostra che gli dedica il Prado a Madrid rappresenta il culmine di questa riemersione, e certo gli spagnoli non hanno badato a spese per allestirla (un milione solo per il trasporto e l’imballaggio, 250.000 euro per il montaggio) e hanno rischiato pure che saltasse a causa del caro-benzina che mandava deserte le aste per aggiudicarsi il trasporto delle opere (sono 96 in tutto, diverse già nel museo, ma le altre provengono da 44 istituzioni). Alla stampa iberica è parso interessare soprattutto il velo che i curatori hanno steso su un dato biografico molto peculiare per il livello che raggiunge: la sua misoginia. Esiste al riguardo un’aneddotica che ne evidenza il profilo quasi clinico, benché fondato su un’opinione di fede, nulla più e nulla meno di un legame indissolubilmente intercorrente tra femminile e stregonesco.
Non per questo Reni era favorevole ai roghi: solo, girassero al largo da casa sua, tranne la mamma beninteso, e una volta che per accidente capitò una camicetta da donna nel suo bucato si fece attaccare per pazzo. E quando, di questi tempi, sarebbero riusciti a metterla su, la mostra, se avessero fatto pubblicità a questa storia?
Ha un ruolo nella sua pittura? Mah, c’è in effetti qualche opera in cui il nudo femminile viene presupposto come svergognato. Ma pare a me che, digiuno in toto, a quel che si sa, della vita sessuale, Guido Reni più dei suoi contemporanei abbia sublimato questa mancanza riversando nei quadri il suo interesse per la carne, alla quale- di fronte alla tela- era più appassionato che allo spirito, nonostante sia uso insistere sul suo devozionalismo (alla radice, oltre tutto, della cattiva opinione di Ruskin). Non mi pare casuale che abbia sfornato San Sebastiani. Benché, come detto, abbeveratosi al realismo caravaggesco non attinse i modelli delle sue rappresentazioni dalle figure popolane ma piuttosto dalla upper class: per dire, che bel giovanotto a modo San Giovanni! San Paolo è De Niro in Mission, sputato.
La conoscenza estetica del corpo spinge Reni a una teatrale drammatizzazione: Apollo e Marsia è una moderna crime story. Il culmine è raggiunto in un originalissimo Davide e Golia che non ritrae, come di prassi, la fase successiva alla decapitazione ma si concentra sul vero cuore dell’azione, Davide che sta calando la spada sopra Golia stordito ed è in grado però di rendersi conto che sta per ricevere il colpo. Con un senso del pathos pre-cinematografico, Reni ci fa vedere solo l’elsa e appena il principio della spada, secondo una sua speciale abilità nel nascondere alcuni dettagli in modo non convenzionale. La bravura nel variare registri, invece, si apprezza in due Ecce homo dello stesso anno, uno morente e l’altro più e cosciente e remissivo. Una ragione di specifico interesse della mostra è l’esposizione di due capolavori di cui è stato da poco completato il restauro, un San Sebastiano del 1616 e Atalanta e Ippomene.
L’ultima fase di Reni è quella dei quadri finiti di fretta, per incassare il ricavato della vendita e passare al prossimo, nella vana speranza di saldare i debiti. Sì, di fretta, con tratti incompleti. La sala del Prado ci mostra l’incredibile differenza tra due Susanna e i vecchi, una del 1623 e una di quasi vent’anni dopo, poco prima della sua morte. Può dirsi solo frutto di un accidente (l’urgenza di terminare l’opera) quello scarto di stile? Da grande artista, Reni fu bravo a trarne un’opportunità, a sigillare quell’imperfezione acquisendola come scelta. Il fascino dell’incompiuto forse esprimeva l’ansia per le questioni materiali che lo pressavano; e al termine del suo tragitto lo indusse infine ad abbandonare quella centralità del corpo per osservare finalmente l’anima.
Guido Reni
Museo dal Prado Madrid
Fino al 9 luglio
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