Le opere della coreana Haegue Yang sono soprattutto una riorganizzazione sorprendente dello spazio. Con mezzi minimali: una linea rossa in fili di cotone, tesa a varie altezze, davanti a delle strisce dello stesso colore tracciate sulla parete con il gesso. E’ un confine intuitivo e simbolico, dalla sacralità inversamente proporzionale all’inconsistenza dello spessore. Oppure con dispendio volumetrico: 176 tendine alla veneziana unite e disposte in rettangoli secondo uno schema labirintico. All’interno, sopra uno schermo scorrono immagini di Venezia e Seoul, filmate in angoli deserti e desolati, mentre una voce ipoteticamente narrante e desincronizzata sciorina un testo dell’assurdo che contraddice la meccanicità del tono con improvvisi lampi lirici: “Accumulano ricchezza come polvere, poi spazzano tutto via in un colpo solo, come nelle pulizie di primavera”. Contrariamente agli artisti spaziali che vorrebbero vincolare il visitatore a una reazione determinata, claustrofobica o liberatrice secondo l’intenzione dell’autore, la coreana, giustamente, pensa che le reazioni dentro la “Cittadella” (la struttura appena descritta) siano profondamente soggettive. Il rifiuto di un’identità predefinita che l’artista rivendica per sé e il pubblico è evocato dalla metafora del camminare sul filo, che dà il titolo alla mostra. Del resto una buona dichiarazione programmatica è la prima opera in cui ci si imbatte nella prima delle tre stanze, uno specchio girato all’incontrario. Sembra un gesto radicale ma pure banale: con un gesto analogo però, il rovesciamento all’ingiù del quadro, Baselitz è diventato uno dei più grandi artisti degli ultimi cinquant’anni.
Haegue Yang
Tightrope walking and its wordless shadow
Furla Series #02
Allestimento curato da Bruna Roccasalva
Triennale di Milano
Fino al 4 novembre
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