Ufficio visti
Si dice che Ionesco, osservando i rivoluzionari del ’68 dalle finestre della sua casa parigina avesse esclamato: “Diventete tutti notai!”. Nell’arte contemporanea non è infrequente che un linguaggio trasgressivo e di opposizione culturale si addolcisca invece in una visione olistica. E’ quello che è accaduto a Kiki Smith? In gioventù esploratrice viscerale del corpo femminile, del quale rendeva visibili gli organi interiori, e in seguito riscrittrice di parabole religiose in chiave di genere sessuale, oggi viene presentata essenzialmente come rasserenante cosmografa, assertrice di un’armonia del vivente profonda ed egualitaria. Viste insieme venti sue opere essenziali alla Monnaie di Parigi, prive di un incasellamento cronologico o di un ordine tematico concreto, emerge una sorprendente continuità, che tende persino a sfumare l’abnorme nomadismo fra i materiali praticato dalla ora sessantenne artista (ormai sarebbe riduttivo definirla scultrice: del resto fra le cose che più incantano ci sono i suoi arazzi galleggianti nel blu. Un percorso cominciato all’ombra di Louise Bourgeois e approdato in dintorni giotteschi): vetro, carta, bronzo, alluminio, cera, gesso. Nella ricerca di aderenza ai corpi ciascuno di questi materiali sembra semplicemente quel che deve essere. Nei suoi temi i miti popolari riaffiorano con rispetto ma passando per il rapporto con il femminile che entra in stretto rapporto con gli animali, le piante e gli astri saltando a piè pari l’universo maschile, l’unico evidentemente in grado di alterare l’armonia con le sue pretese di gerarchizzazione.
Kiki Smith
Parigi
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