Ufficio Visti
Probabilmente fu l’inventrice del selfie. Nei suoi “autoritratti” fotografici appare riflessa o mescolata con la strada che fotografava: non era il classico autoritratto, in cui l’artista si raffigura in posa per documentare uno stadio della sua vita. Rispetto al turista che davanti alla cattedrale intende: “Guarda dove sono”, però, Maier intendeva: “Guarda che ci sono!” (oltre ad abbandonarsi liberamente alla sperimentazione). In fondo apparteneva a buon diritto a quel mondo degli invisibili che erano il soggetto dei suoi scatti. Di Vivian Maier postuma non è solo la gloria ma in buona parte la stessa opera, che rimase sepolta nei suoi archivi e per lo più nei rollini (cioè, nemmeno sviluppata), emersa in blocco dopo l’acquisto di un fortunato ricercatore di archivi nel 2007, poco prima che lei – meno fortunata – morisse battendo la testa sul ghiaccio. Era più nota come baby sitter (l’attività grazie alla quale poteva mettere il piatto a tavola) che come fotografa. Eppure quella fantastica autodidatta può oggi annoverarsi a buon diritto tra i grandi fotografi di strada del Novecento. Ebbe pure lei intenzione di rappresentare condizioni sociali delle classi inferiori? In parte volle, tramite i personaggi, rappresentare degli universali, tant’è che con molta originalità invece che “senza titolo”, certe foto si chiamano “senza data” o “senza luogo”; al tempo stesso, rimase restia a ingabbiare chiunque in un prototipo, a sottrargli anche una scheggia di stretta individualità. Le sue foto, inoltre, non sono mai dolorose. Maier era alla ricerca di sentimenti positivi. Vedo le teste unite di un’anziana coppia che dorme sopra un mezzo di trasporto: non è stata certo la prima a coglierli ma la sua tenerezza ha una squisita perfezione e – in un caso come questo – ci fa sentire poveri perché abbiamo perso la capacità di stupirci per scene minime e intense.
A parte una certa predilezione per le ombre, specialmente a inizio carriera, il lavoro di Vivian Maier, come evidenzia questa mostra arrivata a Torino dalla prima assoluta del Luxembourg a Parigi, può essere diviso tematicamente in tre macrocategorie. La prima sono i ritratti, nei quali sempre Maier riesce a cogliere il soggetto nel tempo a metà tra la completa naturalezza e la consapevolezza di essere nell’obiettivo: ci disegna il varcare esatto del confine tra l’essere fotografato e il sapere di esserlo. La seconda macrocategoria sono le foto di spalle. Mai ne avevo viste così tante messe insieme da un’artista. Sono ritratti anche quelli perché Maier scatta quando il corpo parla con la sua parte posteriore: straordinario. E la terza sono i dettagli: quelli colti nel gesto di un passante o anche in un oggetto, con una finale preferenza per quel che giace sui marciapiedi di New York (esiti esaltanti quando si tratta del residuo di un giornale quotidiano). A volte le sue foto recitano: “Lo sapevi? Succede anche questo!” (ma senza mai interessarsi al mirabolante). Altre: “Guarda! Fate tutti così!”. Ma non sapevamo neanche quello.
Vivian Maier Inedita
Palazzo Reale di Torino
Fino al 26 giugno 2022
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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