Due concetti che legano con difficoltà. Come forse la crescita e il green.
Ma se Greta in qualche posto d’Europa fondasse un partito, quanti seggi spunterebbe in Parlamento? Si fa tanto per dire, e omaggiando Greta come simbolo, senza pretendere di continuare a gravarla di aspettative inappropriate.
Però la domanda non è peregrina, perché invita a riflettere su quanto ci sia di vero e quanto di bolla virtuale nel consenso che circonda l’avanzata ambientalista.
La consapevolezza della crisi climatica si presenta come la più significativa acquisizione culturale del 2019 (diciamo, come acquisizione della cultura di massa). Potremmo cavarcela dicendo che sono i vertici mondiali a mancare l’appuntamento, e rinforzare la convinzione con il deludente esito della conferenza Onu di Madrid. In realtà è tutta l’organizzazione sociale che si sviluppa in controtendenza al risanamento ecologico del pianeta. A cominciare dal prosperare del consumismo.
Prendiamo il Black Thursday. E’ una celebrazione del tutto particolare. Il Natale è stato spesso criticato come profanazione del sacro dentro il paganesimo del consumismo, ma l’accelerazione dei consumi è legata a un momento di rafforzamento del legame sociale (benché strumentalizzato commercialmente). Anche i saldi non sono un inno al consumo fine a se stesso: sono una fase di razionalizzazione del circuito di consumo, una presa d’atto della sua stagionalità. L’unico messaggio del Black Thursday invece è: consumate ora. L’Italia (anche la sua stampa) è piuttosto insensibile al profilo ideologico del Black Thursday, che suscita attenzione e stigmatizzazioni accorate negli altri paesi. El Pais nei giorni della promozione titolava: “Il consumismo che promuove il Black Friday minaccia il pianeta” e nell’articolo Belen Kayser ricordava che “per fare una camicetta di cotone ci vogliono 2.700 litri di acqua, quanto beve una persona in tre anni” (a onor del vero la proporzione mi sembra esagerata, ma anche se le persone fossero sette non cambierebbe granché), che solo in Spagna si vendono un milione di prodotti in 24 ore, molti dei quali elettronici, che “nella cultura dell’accumulazione ciascuno di noi possiede 10.000 oggetti a fronte delle 236 degli indiani navajos” (altro argomento-boomerang: chi baratterebbe la sua posizione con un indiano navajo? Pero, 10.000 a 236 è proprio parecchio…) e che- attenzione che questo dato è scioccante davvero- che nel 2017 l’Europa accumulava 65 milioni di tonnellate di spazzatura elettronica, con un incremento del 33% in cinque anni. Il Black Friday è una cieca sollecitazione di queste pulsioni. In Francia l’ex ministro dell’ambiente Delphine Bathot ha presentato un disegno di legge per vietare il Black Friday, sulla scorta della tesi che “un marketing aggressivo che spinge acquisti compulsivi non è compatibile con la lotta contro il riscaldamento globale” e il ministro in carica Elizabeth Borne ha rincarato la dose affermando che il Black Friday “crea ingorghi, inquinamento ed emissioni di gas” a beneficio delle piattaforme on line invece che delle economie locali. In effetti dove il richiamo alla spesa si fonda interamente sul risparmio a trarne vantaggio non possono che essere i grandi player.
L’apparente smaterializzazione del consumo cela la sua espansione, e sempre a svantaggio della redistribuzione degli utili sul territorio. Una recente inchiesta di Samanth Subramanian, sul Guardian Weekly, punta l’indice contro gli acquisti on line su Amazon, calcolando che gli imballaggi dei prodotti consegnati a domicilio costituiscono oggi il 30 per cento dei rifiuti solidi degli Stati Uniti, che il cartone utilizzato costa la vita a un miliardo di alberi e che tutto questo è l’equivalente dei 3.800 miliardi di dollari di vendite del 2017 che, mantenendo le attuali linee di tendenza, passeranno a 6 miliardi nel 2024. La metà dei 165 miliardi di pacchi consegnati negli Stati Uniti è di Amazon, il cui impatto ambientale (sommando la plastica) ammonta a 45 milioni di tonnellate di anidride carbonica.
I notiziari insomma sono schizofrenici quando lamentano nello stesso tempo il raffreddamento dei consumi e il riscaldamento del pianeta. Si può per questo gettare la croce sui consumatori? O immaginare che sia l’autoregolamentazione delle aziende a risolvere i problemi? Ha fatto rumore l’annuncio di EasyJet di voler operare a emissioni zero, ovvero compensando tutte le emissioni prodotte dal carburante dei suoi voli con progetti di rimboschimento. Sui manuali di economia politica ancora impera la dottrina delle diseconomie esterne: un’industria può anche inquinare a condizione che rimborsi i danni che arreca alla comunità. Ma per il livello che ha raggiunto la crisi ambientale il concetto di riparazione è anacronistico, perché non è sostenibile lo squilibrio temporale tra gli effetti del danno e quelli della ricomposizione.
In definitiva il compito di regolatore spetterebbe agli stati, che lo utilizzano sovente in modo demagogico e approssimativo. Il problema ambientale, fra l’altro, non è solo il riscaldamento climatico ma anche l’avvelenamento delle polveri sottili. La misura cui si ricorre d’abitudine è il blocco delle auto: eppure si tratta di un fattore che pesa solo per il 18%, appena più del 15% determinato dagli allevamenti intensivi (che in pochi anni hanno aumentato la loro incidenza di oltre il 30%) e meno della metà dell’elettricità e del riscaldamento domestico. Se ci limitiamo alle emissioni di gas serra, l’agricoltura sale al 24%, appena sotto il 25% dell’elettricità, e l’industria pesa per il 21%.
Dove ha fallito la pianificazione economica, come fonte di redistribuzione dei redditi, potrebbe riuscire la pianificazione ecologica, quale fonte di riequilibrio tra i profitti e i consumi (due facce della stessa moneta) e la tutela ambientale.
Purtroppo non ci sono da riporre grandi aspettative sull’iniziativa degli stati, per due ragioni fondamentali. La prima è che, trattandosi di una crisi globale, qualunque misura rimane inefficace se non è condivisa sul piano internazionale, e questo disincentiva uno stato nel lanciarsi in politiche ecologiste. Fra l’altro la ripartizione delle responsabilità è meno evidente di quel che può sembrare da una lettura superficiale dei dati. Possiamo prendercela con la Cina per la quantità di emissioni di anidride carbonica che lancia nell’atmosfera, il 28 per cento del totale: ma l’accusa, oltre a essere neocoloniale (pretendiamo che i paesi che arrivano all’industrializzazione più tardi scarichino sulle loro aspiranti classi medie i guasti che ha prodotto la formazione delle nostre) è ingenerosa: se rielaboriamo il dato delle emissioni pro capite, scopriamo che l’Australia ne immette 25 tonnellate a persona, gli Stati Uniti 20, la Germania 11 e la Cina appena 8,4 (l’Italia ancora meno, 7). Aggiungiamoci che una quota delle emissioni prodotte in paesi come la Cina sarebbero da mettere a carico dei consumatori occidentali, che beneficiano dei prodotti finali realizzati grazie alle delocalizzazioni delle loro imprese.
La seconda ragione è molto banale ed è che le misure ecologiche non godono di consenso. Basterà qui ricordare come la protesta dei gilet gialli sia scoppiata per l’aumento delle tasse sul carburante, che Macron è stato costretto a rimangiarsi, o come il governo italiano abbia innestato una parziale ma significativa retromarcia sulla tassa che colpiva la plastica. Al contrario, mentre discutono in vetrina mediatica di come ridurre il riscaldamento globale, gli stati hanno erogato sussidi alle industrie del carbone per 52.000 miliardi. Spesso, un po’ come si dice che bisogna salvare le banche per tutelare i risparmiatori, questi finanziamenti mirano a proteggere l’occupazione. Questo significa che il conflitto tra lavoratori ed ecologisti è lontano dal risolversi.
C’è al fondo una questione di compatibilità ancora più radicale: parlare di crescita verde è un ossimoro? Simon Kuper, sul Financial Times, ha invitato a riconoscere che dobbiamo scegliere tra la crescita e il clima, e ha anche ipotizzato come- nell’attesa, non breve, che le energie alternative possano contare su infrastrutture in grado di consentire una riconversione efficiente- la democrazia rischi di non sopravvivere senza il carbone, poiché l’elettorato non sarà disposto a decimare il proprio stile di vita.
La distinzione tra cittadino e consumatore è ormai una scissione interiore. Il cittadino in piazza come lavoratore che difende i diritti sociali, come piccolo imprenditore che rivendica la sua libertà economica o come cosmopolita responsabile preoccupato per la salute del pianeta è quasi sempre lo stesso soggetto che da consumatore contribuisce a creare le sue condizioni di precarietà e che, sempre da cittadino, sostiene misure che peggiorano la condizione climatica (e spesso perpetuano la precarietà). La critica del consumismo si è interrotta, non si è evoluta, non si è raffinata. E concetti di rinnovamento sociale, come l’economia della condivisione, sono stati per intanto sequestrati dalle multinazionali del capitalismo liberista, che ha generato ulteriori occasioni di disuguaglianza.
Esortare alla raccolta differenziata sarà anche utile. Ma il problema è che esiste una coscienza politica differenziata cittadino/consumatore (o non esiste affatto una coscienza politica), e soprattutto non esistono movimenti che si pongano come obiettivo prioritario di coltivarla e di ripensare seriamente l’organizzazione sociale.
Nella modifica di queste lacune dovrebbero essere spesi i migliori propositi politici per l’anno nuovo.
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