Le recensioni degli utenti. Il filtro per l’eternità di Trip Advisor

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Non si possono cancellare nemmeno dopo anni, neanche invocando il diritto all’oblio. E’ giusto? E cosa rappresentano veramente?

“Ho mangiato un vero schifo”. Se fosse l’epitaffio su una tomba (ad esempio quella di Michele Raviolino) a un certo punto l’erosione degli agenti atmosferici ne comprometterebbe la leggibilità. Se si tratta della recensione di un utente, in teoria, saremo certi di ritrovarla intatta per l’eternità, a tutela del diritto delle persone di informarsi.

Così parrebbe dalla recentissima sentenza del Tribunale di Roma che si riferiva nello specifico

a un professionista che aveva chiesto la cancellazione dei commenti negativi da Google My Business in nome del diritto all’oblio e si è vista respingere la richiesta. È sempre azzardato commentare sentenze prima che sia possibile leggerne la motivazione, che chiarisce quanto la specificità del caso abbia pesato sulla decisione e rende visibile il percorso logico (o, se del caso, illogico) del giudice.

Per quel che si ricava dalla notizia, il medico ricorrente era il classico bel tomo, visto che avrebbe chiesto la cancellazione delle sole recensioni negative, e dopo un giorno dalla loro pubblicazione. Sono tempi da oblio che varrebbero in un tribunale di pesci rossi (pare che dimentichino tutto dopo nove secondi), e per gli uomini sarebbero più consoni a una dimenticanza banale (dove ho messo le chiavi della macchina?). Prima di entrare nel merito della questione se sia giusto che le recensioni degli utenti pesino come un’indelebile macchia d’infamia, spendo due parole – necessarie per chi non è giurista – sul diritto all’oblio: nella sostanza il diritto che una certa notizia su una persona, anche se vera e precedentemente resa pubblica, scompaia a un certo punto dai radar dell’informazione. Il principio di fondo è il medesimo che sottende alla cancellazione sui certificati delle condanne penali non gravi: si possono commettere degli errori ma è anche giusto che dopo un certo punto siano sopraffatti dalla condotta attuale di chi li ha commessi.

 

Qualcosa di simile al diritto all’oblio si affacciò nel 1958, in una sentenza della Corte di Cassazione, che parlò di “diritto al segreto del disonore”. Poi negli anni Novanta si affermò il principio che (cito una massima del Tribunale di Roma) “sussiste il giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata”. La questione è ovviamente esplosa con l’avvento di Internet e il rimbalzo di quella notizia da un sito all’altro, senza che il divulgatore originario abbia più alcun controllo, e soprattutto del fatto che essa viene reperita per caso con accresciuta facilità a causa delle dinamiche dei motori di ricerca. Trattato dalla Corte di Giustizia Europea e dal Regolamento Europeo sulla privacy, il diritto all’oblio obbliga, in alcuni casi, alla cancellazione dei dati o alla de-indicizzazione della notizia sgradita dai motori di ricerca.

Dire che viene rimossa la “notizia” però non è esatto: fondamento del diritto all’oblio è proprio che quella non sia più una notizia in quanto non presenta il carattere dell’attualità, e quindi se rimane in circolazione è solo per fare un dispetto al “notiziato”. Si comprende però la debolezza del diritto all’oblio poiché ciò che non è più cronaca è pur sempre diventato storia, e con il diritto alla storia il diritto all’oblio è destinato alla sconfitta in partenza. Pensiamo alla pretesa di un terrorista di non essere menzionato nei discorsi pubblici della vittima che ha reso orfano. Al massimo si potrebbe concedere che non sia giustificato l’automatismo della persistente notorietà del fatto: cioè va bene che lo ricordi la vittima, va bene che lo ricordi lo storico, ma se resta per inerzia su un sito di cronaca dopo anni o su una chat oziosa ben potrà essere cancellato. Senonché anche tali sedi costituiscono fonti documentarie, utili allo storico di domani, il quale – se tutti cancellassero i dati che guastano la loro reputazione, come il re visigoto Recaredo I fece bruciare tutti i libri dell’arianesimo – si chiederebbe come sia accaduto che tutte quelle brave persone abbiano potuto preludere allo sfascio sociale ed economico in cui (forse) si troverà lui.

 

Insomma, che sia storica o attuale, esiste un diritto all’informazione che normalmente prevale sul diritto all’oblio, e immaginare di circoscriverlo agli eventi più importanti è un’ingenuità, perché quegli stessi eventi risultano incomprensibili se non vengono inquadrati in un contesto che gli eventi meno significativi spesso chiariscono più di quelli macroscopici. E ora possiamo riprendere, sotto una particolare prospettiva, la questione iniziale: le recensioni degli utenti possono qualificarsi informazioni?

 

È noto (o forse non tanto) che TripAdvisor è un terreno minato: negli ultimi tre anni TripAdvisor ha fatto chiudere sessanta società che vendevano false recensioni e anche all’interno dell’azienda sono consapevoli che si tratta di una goccia nel mare. Nel 2017 un giornalista di Vice ha fatto arrivare il suo capannone in cima alla lista dei ristoranti di Londra facendo scrivere recensioni false ad amici e parenti e postando foto di piatti gourmet a base di crema da barba e candeggina.

Ma alla fin fine anche il business delle guide enogastronomiche ha i suoi lati oscuri. Quel che conta, delle recensioni di utenti, non è tanto che sono informazioni ad alto rischio di falsificazione ma che non sono propriamente informazione (uso la parola al singolare: informazione nel senso giornalistico del termine): cioè quell’entità da proteggersi (e che produce la notizia, e poi la storia) a fronte del diritto del singolo ad essere dimenticato o del ristorante a non essere danneggiato nella sua attività commerciale.

Fare informazione significa andare al di là della sensazione immediata e della propria esperienza qui e ora, documentarsi, verificare, comparare, entrare nel dettaglio. In realtà, come chiunque può verificare entrando a casaccio tra le recensioni di TripAdvisor, è assai raro persino che gli utenti indichino cosa hanno mangiato e in linea di massima nemmeno si capisce se il locale inclini più verso la lepre in salmì o il crudo di crostacei. Abbondano le informazioni laterali, questo sì, sulla cortesia o scortesia del cameriere o sulla dimensione delle stanze dell’hotel (e però oltre un certo limite è la stessa piattaforma che preclude di andare: una donna che è stata violentata in un resort di Cancun dal vigilante – obiettivamente un’informazione mica male – si è vista respingere la pubblicazione del messaggio perché contrario alle “politiche per famiglia del sito”).

 

Ma se non rientrano nella categoria dell’informazione, in quale rientrano le recensioni degli utenti? Io direi in quella del pettegolezzo. Questa è una delle parole a lento aggiornamento nei dizionari, che le conservano l’accezione esclusivamente denigratoria (contrariamente a quanto fanno per l’omologo gossip). La psicologa Giuliana Proietti, correttamente, ha scritto che un pettegolezzo per essere tale deve contenere quattro caratteristiche:

  1. a) deve riguardare una terza persona
  2. b) che è assente al momento in cui se ne parla
  3. c) che deve essere conosciuta anche indirettamente dai pettegoli
  4. d) oltre a fatti e informazioni deve riportare un giudizio valutativo.

Si capisce da queste righe come il pettegolezzo non sia affatto da buttar via e anzi preservi la stabilità dei gruppi e la loro coesistenza pacifica: addirittura la sua etimologia ricondurrebbe a “pithecus” (scimmia), e questo potrebbe apparire offensivo, ma Dunbar e altri psicologi sociali lo hanno accostato al grooming dei primati che si spulciano, e questo potrebbe apparire ancora più offensivo, però il senso è che serve a mantenere le relazioni sociali. Il giornalista scientifico Tom Standage nel suo saggio I tweet di Cicerone sostiene che i social media non sono altro che un aggiornamento dei pettegolezzi (e del grooming). E il cerchio si chiude.

 

Nel pettegolezzo si carica frequentemente la propria libertà espressiva, proprio come nella recensione web. Se una differenza c’è sta nel fatto che l’utente di TripAdvisor non racconta qualcosa che ha appreso da altri (il pettegolezzo forma in effetti una catena) ma riporta una sua esperienza, e però si tratta di un dettaglio che non cambia la sostanza psicologica di quel rendiconto. Considerando che la Rete non ha solo moltiplicato le insidie per la reputazione ma anche incrementato la presenza del Sé come punto di partenza dei discorsi, potremmo dire che la recensione dell’utente è il pettegolezzo nell’età dell’infosfera.  

 

Grazie a questa sua leggerezza viene protetta da un regime di tolleranza che non si applicherebbe a manifestazioni non mediate da uno schermo. Chiunque si piazzasse in mezzo alla sala del ristorante disprezzando con alte grida le linguine al pesto sarebbe considerato unanimemente meritevole di espulsione dalla sala, e legalmente perseguibile chi si stendesse per terra con il sacco a pelo a lato dell’hotel Bristol esponendo un cartello con scritto: “Sto più comodo qui che sui materassi del Bristol. Provate per credere!”.

 

La recensione in rete è in definitiva un gioco con regole tutte sue. Nel complesso mi pare un gioco molto carino ma con forti rischi di sbilanciamenti che la limitazione nel tempo consentirebbe di ridurre. Quanto meno se è il titolare di un’attività a richiederla, e a condizione che lasci o prenda in blocco, non tenendosi in vetrina solo quello che gli fa comodo. Se proprio dobbiamo difendere l’interesse pubblico della memoria, per dire, mi focalizzerei di più sul tema di storia alla maturità.

Di |2020-09-11T15:04:27+01:001 Marzo 2019|Web philosophy|

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