Un mese fa, a seguito degli attentati che hanno provocato oltre cento morti, lo Sri Lanka ha sospeso qualche giorno i social per ragioni di sicurezza. Non era in realtà una novità assoluta, lo Sri Lanka era già ricorso a questa misura. Di nuovo ci fu che un’autorevole commentatrice del New York Times, Kara Swisher, sostenne che era la cosa da fare, e che forse bisognerebbe pensarci più spesso. In questo stesso 2019 Christian Rocca ha pubblicato per Marsilio uno di quei pamphlet che disinnescano la propria esplosività autodefinendosi delle “provocazioni” intitolato “Chiudete Internet”.
Un paio di giorni di rimbalzi e commenti (pochi, in ogni caso) e tutto è stato dimenticato. Si può provocare, scherzare, fantasticare. Ma come si potrebbe sospendere Internet? Se solo limitiamo il discorso ai social vengono tirate in ballo la libera espressione delle persone e la democrazia. Sulla rete in generale la questione neppure si pone.
Come ho scritto una volta, ricalcando Luciano Floridi, è ormai assurdo separare il mondo virtuale e quello fisico, poiché viviamo costantemente in una loro forma ibridata, l’infosfera. Dove non c’è rete la vita fisica si interrompe. Tra poco nemmeno potremmo effettuare più i pagamenti (a proposito, Facebook è al lavoro su una moneta virtuale).
Al tempo stesso, però, dove c’è rete l’azione fisica non si interrompe, neppure quando sarebbe il caso. L’ultimo piccolo episodio è stata la violazione del silenzio elettorale, pensata per i media, e si sa che le piattaforme viaggiano dentro il loro ambiguo statuto giuridico. Ma queste sono vicende delle quali si può venire a capo, benché non troppo agevolmente. Pensiamo piuttosto al tema del lavoro. Quando viene sollevata la questione del riposo festivo dei lavoratori l’obiezione immediata è: che senso ha, tanto Internet mica si ferma! Ecco che, quatta quatta, la presenza virtuale si è emancipata dal ruolo di prolungamento della vita fisica (e di realtà più fisica del lavoro, cosa c’è?). E’ la vita fisica che deve uniformarsi ai tempi e ai canoni dettati dalle risorse digitali.
Accade alla nostra organizzazione sociale quel che rimproveriamo ai nostri ragazzi: l’impossibilità di pensarsi fuori dalla connessione. Quello che si presenta, dietro l’Internet delle cose e le città smart, è un mondo assai vulnerabile, in termini di sicurezza. È un palliativo misero, quando l’elettricità viene interrotta da un lungo blackout, ricorrere alle candele. Ma l’ascesa digitale, che al massimo si cura di produrre copie di scorta, non pare riservare alla dimensione analogica nemmeno una comparsata del genere. Taglia radicalmente i ponti con il passato, e ci rende irrimediabilmente dipendenti dalle forme che viene ad assumere, secondo le determinazioni degli ingegneri. Tutte le critiche alla crescita illimitata sono ridicole se non investono l’uso sociale della tecnologia.
Il potere politico è stato scalzato più dalle nuove tecnologie che dalla globalizzazione. Le nostre giornate sono scandite da ritmi e regole che non sono passati per alcuna deliberazione. Ce li siamo trovati, e ormai li accettiamo come quelli della natura, dimenticando che costituiscono la diretta rappresentazione di interessi puramente commerciali. Buttarla sempre e solo sulla violazione della privacy finisce per essere un diversivo, che non a caso comincia ad essere assecondato compiacentemente dai giganti della Silicon Valley.
Se immaginare un futuro fuori dal digitale è irrealistico, e anche stupido e masochistico, dovremmo tuttavia scandalizzarci di come rapidamente ci siamo piegati a una tecnologia che ridisegna l’umano a misura di se stessa invece che il contrario. L’impossibilità di staccarla (non di staccarci singolarmente), fosse anche per un secondo e fosse solo per i social, prova che siamo schiavi, non che siamo liberi. E, fuori di metafora, basterebbe vedere l’uso che ne fa la Cina per comprendere come sfuggire alla continuità della rete possa essere una condizione di sopravvivenza.
Nei progetti, sempre più numerosi, che stanno animando l’utopia di un’Internet diversa (a cominciare da quelli di Tim Berners Lee, l’uomo a cui si deve la comparsa della prima pagina web) e rispondente alle promesse originarie, non dovrà mancare questo dettaglio: farne qualcosa di cui, ogni tanto, sia possibile collettivamente fare a meno, e che funzioni secondo quello che hanno deciso consapevolmente gli esseri umani.
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