Per l’intera storia della medicina, a quanto pare, sono stati compiuti gli studi per i farmaci su cavie maschili per evitare che i cicli mestruali femminili confondessero i dati. Solo dal 2014 il National Institute of Health ha cambiato registro, sulla base della constatazione che le terapie agivano in modo diverso a seconda del sesso: ad esempio i sonniferi a base di zolpidem provocano mal di testa e incubi alle donne, la statina previene le malattie cardiache specialmente negli uomini e la levodopa produce effetti indesiderati agli arti superiori tre volte più nelle donne. Sembra francamente incomprensibile che la variabile di genere non fosse stata presa in considerazione, ed è una perfetta metafora della costruzione maschile della società. Persino i gruppi di soggetti sottoposti a sperimentazioni rappresentano uomini per il 70%. Le donne, sempre per la necessità di studiare gli effetti durante le fasi diversi del ciclo riproduttivo, necessiterebbero di una sovra-rappresentazione (non si capisce però perché siano addirittura sotto-rappresentate). Così i risultati delle sperimentazioni vengono campionati secondo una media che rispecchia essenzialmente il corpo maschile. Non è strano, dunque, che quelli che si identificano nella conoscenza comune come i sintomi di infarto siano quelli degli uomini (dolore al torace e senso di oppressione) e che i più (donne comprese) ignorino i segnali dello stesso accidente più tipicamente femminili (senso di malessere generale, diarrea, nausea, vertigini): e nemmeno è strano che la donna, pur avendo una durata di vita mediamente superiore la trascorra in condizioni fisiche peggiori: 763% in più di osteoporosi, 500% in più di tiroide, 123% in più di emicrania, 30% in più di ipertensione (dato di passaggio: l’Italia è al 68° posto nella classifica mondiale della eguaglianza nelle cure uomo/donna).
La scarsa circolazione di questi dati è un richiamo al rischio che la restrizione della “questione femminile” alle prevaricazioni sessuali perda di vista una contestualizzazione sociale molto più complessa.
Elisabeth Badinter ha ricordato su Le Monde come le molestie sessuali sul luogo di lavoro siano superiori del 78% in assenza di una posizione contrattuale stabile. La filosofa femminista, che certo nel suo percorso intellettuale ha espresso posizioni discusse (anche dalle donne), ha ragione stavolta nell’avvertire che il #metoo sposta l’attenzione dai temi sociali in modo semplificatore.
Personalmente noto, nel trascorrere di un ventennio, un notevole regresso nell’affermazione di una visione “femminile” della società.
È noto che il movimento femminista si è diviso sulla questione dell’identità e della differenza: nel momento in cui le donne cominciavano finalmente ad occupare alcuni posti di potere il femminismo si interrogò se ciò non stesse avvenendo con il sacrificio delle peculiarità di genere sull’altare di un’eguaglianza, che era in realtà l’espressione di un paradigma maschile (che insomma la donna stesse battendosi per l’obiettivo sbagliato, diventare un uomo). Il pensiero della differenza ambiva a influenzare le radici filosofiche della vita sociale. Ricordo negli anni Novanta quanto peso stesse prendendo la tesi che la donna fosse portatrice di una “etica della cura” che sfidava il contrattualismo quale modello delle relazioni sociali e della giustizia.
Cosa ne è rimasto nel dibattito pubblico? Oggi assai poco. Per segnare la distanza tra le epoche vale forse la pena di rammentare come, sempre negli anni Novanta, soprattutto all’inizio, la bioetica catturasse l’attenzione quale nuova sfera morale, capace di riplasmare le relazioni nella comunità (di degradarle o valorizzarle, a seconda della china che avrebbe preso). Inevitabilmente, essendo in gioco il corpo, il “sentire” femminile si giovava di un’eccezionale opportunità per porsi al centro dei discorsi ideologici e di influenzarli.
Ma la bioetica ha lasciato da tempo il passo alla rivoluzione tecnologica nell’agenda sociale: un tema solo apparentemente asessuato, che in realtà ha riaffermato modelli fortemente maschili dell’organizzazione sociale, coprendo silenziosamente tutte le brecce che il pensiero femminile era riuscito ad aprire. Quel pensiero femminile che sull’indirizzo della tecnologia digitale è clamorosamente latitante. E se si ripartisse da qui?
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