All’automobile potremmo imputare tanti difetti: mai però accusarla di averci condotto in una destinazione diversa da quella che volevamo, e nemmeno di avere insistito per imboccare l’uscita specifica di un cartello autostradale. Quanto alla lavastoviglie, mai si è permessa di sindacare sul detersivo che adoperiamo o ha preso spunto dal suo lavoro per suggerirci il rinnovo del vasellame. Quanto al legame che abbiamo instaurato con loro, come con qualsiasi altro oggetto, si è instaurata una fedeltà esclusiva. Con il venditore gli artefatti rompono ogni rapporto, e quando il manutentore viene a prestare assistenza alla caldaia, lei mantiene una fredda distanza (anche quando quello punta verso l’alto il termoregolatore) e mai si azzarda a spettegolare su quel che accade in casa.
Fra le tante rotture che lo smartphone introduce nella storia degli oggetti c’è questa sorta di compromissione morale: il suo mai darsi senza un interesse non del tutto convergente con il nostro.
Se ci limitassimo a considerare la sua qualità di trarre informazioni da noi e dal nostro ambiente dovremmo qualificarlo un infiltrato. Ma al di là del fatto che nella mano lo abbiamo accolto noi, sarebbe riduttivo focalizzarsi solo sull’aspetto spionistico. Forse è più esatto definirlo un antagonista, nonostante la sua indefessa propensione collaborativa nel farci raggiungere i nostri scopi, che presi singolarmente non sono neppure i suoi (per dire: mai sentito di uno smartphone che si presenta al posto del suo proprietario a un appuntamento organizzato su Tinder). Esiste tuttavia un campo di azione che ne riassume tanti e sul quale lo smartphone si erge schiettamente come rivale: il controllo consapevole del nostro ambiente al fine di interagirvi secondo principi di autodeterminazione.
Lo smartphone, quell’ambiente, vuole contribuire a costruirlo, indirizzando le nostre inclinazioni, e per questo fine non esita a passarci le informazioni nel modo che gli aggrada e secondo una logica di scambio che lo porterà sempre a saperne più di noi.
Preciso meglio quel che sto dicendo. Lo smartphone ci ascolta, ci studia, ci rileva e lo fa a beneficio di un’organizzazione economica che ha interesse a lucrare sulle nostre condotte. Spesso passa all’azione e ci suggerisce una soluzione (i pop up che appaiono sullo schermo, la personalizzazione delle ricerche sul motori) o fisicamente ci sollecita a un’azione (le notifiche) e con l’accrescersi della funzioni ci incatena alla sua necessità, evidentemente distogliendoci da attività che non lo comprendono. Come dicevo, è una svolta impressionante: l’auto ci poteva affascinare con il suo carisma ma alla fine che la lanciassimo a folle velocità sulla Pedemontana o la sigillassimo in garage, in nessun caso gliene tornava qualcosa.
Lo smartphone non è solo l’hardware: esso è soprattutto quell’insieme di software applicativi che lo rendono tanto pregnante per il disbrigo di compiti essenziali (o almeno divenuti tali).
Veniamo alle possibili obiezioni. Non accade lo stesso con il pc e il tablet? Certo, ma il potere di osservazione e intervento di cui beneficia lo smartphone beneficia della sua portabilità assoluta: dalla quale conseguono la potenziale universalità delle funzioni, la continuità ininterrotta della presenza e l’assunzione nella corporeità. La differenza di quantità (di volume, di peso, di operazioni che può svolgere) raggiungono il punto di una variazione della qualità dell’oggetto (cioè ne mutano le caratteristiche). L’impiego della geolocalizzazione ne è un esempio significativo.
E non accadeva qualcosa di analogo con il televisore, che per anni è stato additato come il nemico delle masse per l’istupidimento collettivo indotto dalla fruizione passiva dei programmi? O, ancora prima, con la radio? Ma, a parte sempre la questione della portabilità, il televisore è il veicolo di funzioni comunicative predeterminate e limitate. Al televisore non possiamo chiedere cose che diversamente faremmo noi, oppure che potremmo ottenere da altre persone o da altri media in forme differenti di interazione. Lo smartphone “ruba” crescenti funzioni al mondo circostante (mappe, previsioni del tempo, intrattenimento, cura delle relazioni, ascolto musicale, e così via), rendendolo più povero o condizionandone la ricchezza di opportunità alla sua mediazione. Non potrebbe riuscirci senza la nostra concreta collaborazione. Con lo smartphone siamo assai oltre il famoso “io ti offro servizi gratuiti e tu mi riveli qualche segretuccio”, dove l’idea è che ogni tanto l’azienda passa a questa forma di incasso. Qualsiasi azione dello smartphone è pensata e promossa in funzione della sua idoneità a ottenere informazioni sull’ambiente e apprendere comportamenti (e poi dati personali: ma rispetto alle altre due è una funzione quasi obsoleta).
Il rapporto dell’uomo con gli artefatti ha alla radice il suo modesto corredo genetico e la ridotta mutazione che esso subisce attraverso l’evoluzione. Dalla pietra lavorata per servirsene come arma nella caccia al cavatappi l’uomo si è circondato di oggetti che rappresentano le sue protesi. Dove non arrivano gli occhi arrivano gli occhiali; dove non riesce il dente provvede il coltello.
Lo smartphone, tuttavia, non si dà al suo possessore come sua protesi. Rimane essenzialmente una protesi altrui, quella delle aziende che vi immettono i loro applicativi. Mentre attraverso le sue protesi l’individuo ha potuto emanciparsi dalle restrizioni dell’ambiente, e accrescere la propria libertà, la concessione in uso di una protesi aziendale (che solo incidentalmente, e nei limiti della convenienza aziendale, coincide con l’utilità del singolo) lo rende più schiavo. Non è un caso se le quote di intelligenza sociale che quelle aziende promettono di distribuire sono destinate a nuove protesi artificiali.
L’obiettivo, dal punto di vista politico, deve essere pertanto quello di riequilibrare il rapporto tra l’uomo e le nuove protesi, precludendo alle aziende una parte degli impieghi che tirano dal loro lato (e di nuovo: scendendo un po’ più in profondità della pur rilevante tutela della privacy).
Nel frattempo il singolo dovrebbe cercare di limitare la sua superstiziosa fiducia nel totem dei giorni nostri, quanto meno allertandosi quando l’antagonista è esageratamente servizievole, e insistente nel suggerirci il da farsi, o frizzante e tempestivo nel registrare la nostra voce e i nostri spostamenti nello spazio.
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