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Dove va la lingua italiana con gli strumenti digitali? Una riflessione sociolinguistica (e social-linguistica)

Tra i linguisti, qualcuno lo chiama e-taliano, qualcuno italiano digitato, qualcuno italiano trasmesso. È l’italiano praticato sui social e negli sms, che personalmente ho in passato definito scriparlato. Il dato interessante, in effetti, è che più che una variante intermedia tra scritto e parlato si tratta di un parlare mediante lo scritto, accompagnato com’è da tutta una serie di prerogative tipiche dell’oralità. A partire, direi, dalla sua urgenza. Per definizione, ricorriamo alla comunicazione mediante un dispositivo quando ci preme raggiungere rapidamente un destinatario (come un tempo avremmo fatto telefonandogli invece che mandandogli una lettera). Che poi, sovente, l’urgenza non sia un’impellenza obiettiva (se non lo avverto subito accade che) ma una necessità interiore, magari dettata dalla pura circostanza di avere tra le mani uno smartphone, non cambia nulla. Lo scriparlante travasa nel suo messaggio l’informalità, la brevità e l’economia di mezzi espressivi che l’urgenza impone. L’inclinazione parlata è stata progressivamente rinforzata dalla quasi-simultaneità dell’interazione e dal sempre più netto uso della scrittura digitale in chiave dialogica.

 

Capire dove abita lo scriparlato non è una questione accademica. È per questa via che si può stabilire cosa è corretto (nello scritto siamo più rigorosi che non nel parlato), ripensare se parlare correttamente serva ancora a qualcosa (ci si potrebbe ad esempio domandare se dobbiamo davvero addolorarci per la scomparsa della virgola) e infine cercare di dedurre dove sta andando la nostra lingua (e quindi dove stiamo andando noi, che siamo quel che il linguaggio che adoperiamo e comprendiamo ci consente di essere).

 

Cosa possiamo dire, con presunzione di relativa generalità, dello scriparlare? Di certo:

  1. Porta con sé più errori di grammatica, a causa della fretta e della manipolazione, che è tendenzialmente più insidiosa dell’emissione fonetica.
  2. Scrive come suona: vi è una larga tendenza a rispecchiare la parola per come arriva all’orecchio. Si procede così a trascrizioni fonetiche, sino al punto di sostituire la sequenza grafica con una lettera dell’alfabeto (esempio “c vediamo”) o inserendo numeri in stile rebus (3mendo).
  3. Risponde a principi di economia e concisione: sempre per l’urgenza, ma anche per economia intesa come risparmio monetario. Per gli sms, in particolare, i programmi tariffari impongono un numero prefissato di messaggi e di caratteri all’interno del messaggio. Da qui, in partenza, il proliferare di acronimi, sigle e tachigrafie e il cannibalismo delle consonanti a danno delle vocali, tutto materiale poi incorporatosi organicamente nel testo digitale.
  4. Essendo un parlato, sì, ma a distanza e senza voce, è perennemente sotto la scure dell’equivoco riguardo al tono (avrà scherzato o lo ha detto per offendermi?) e quindi si accompagna a una serie di accorgimenti per disambiguare, attenuare, esprimere e sostituire i fatti prosodici, cioè il tono della voce o quella gestualità e mimica che da vicino rende più scoperte le intenzioni del parlante: in passato soprattutto gli smile, più recentemente gli emoticon (ma anche variazioni affettive o scherzose delle parole).

 

  1. È propenso a un’aggressività estranea alla freddezza del puro testo scritto e alla circospezione del parlato puro, che prima di “sforare” pesantemente è soggetto a un maggiore autocontrollo. Oltre alla mediazione dello schermo e allo sbracare dell’informalità, contribuisce a ciò la sua natura di atto fisico compresso: la digitazione è un movimento che per gli abitudinari è svolto in modo frenetico ma al tempo stesso impegna una parte ridottissima del corpo, creando un divario tra l’urgenza coinvolgente dell’atto e la limitazione del movimento (non “risolve” insomma la tensione allo stesso modo che gesticolare, lasciando in circolo energie inespresse. La corporalità troncata si trasforma dunque facilmente in coprolalia.

 

Ma lo scriparlare è fenomeno recente, in costante evoluzione e dunque sarebbe un errore adagiarsi su stereotipi e generalizzazioni che sono pronti a rovesciarsi nel loro contrario.

 

Si scriparla perché meno impegnativo della formalità irrevocabile di uno scritto e del confronto vis-a-vis? Però la tensione prodotta dal perpetuo rischio di equivoco e la compressione fisica di cui ho appena scritto lo rendono un’attività profondamente stressante.

Si scriparla invece che stanare qualcuno con una telefonata perché è più discreto avvicinarlo con un messaggio? Ma poi si esige una risposta tempestiva e ci si irrita quando non arriva, specie se grazie alla messaggeria istantanea si è informati del fatto che l’interlocutore è collegato in rete. In sostanza il destinatario viene “sequestrato” (da tutti i suoi mittenti, anche sei o sette per volta). La situazione, quindi, è assai più interferente di quello “spot” che rimane la telefonata (e persino del breve incontro fisico).

 

Lo scriparlare è rude, semplice, franco, idealmente scheletrico? Senonché l’eccesso di sottrazione operato da elisioni, troncamenti, tachigrafie e sigle varie (in inglese ancora più che in italiano) rende talvolta gergale il messaggio e impone un maggiore sforzo di traduzione da parte di chi lo legge. In più, soprattutto su Facebook e nelle chat, galleggiano messaggi sovrapposti, alcuni contenenti la risposta a un messaggio precedente di una sola persona o peggio il riporto di una conversazione che uno dei partecipanti potrebbe non aver seguito, con un effetto complessivo di opacità del dispiegarsi testuale. È anche tipico l’ammiccamento citazionista di conversazioni molto precedenti e questo rende ancora più ostica la cooperazione comunicativa dei parlanti nel loro insieme. È come quando a un tavolo tre o quattro amici scoppiano a ridere senza che gli altri capiscano perché.

 

Lo scriparlare è una forma essiccata di linguaggio fondato sull’economia dei tempi? Beh, certe persone passano mezzora a ricercare l’emoticon giusto e didascalico perché non hanno voglia di perdere dieci secondi a trovare le due parole che dissiperebbero ogni equivoco (e però astenersi costantemente dall’uso di emoticon o smile può essere interpretato come una forma di distanza o autonomamente colorare di cupezza il messaggio). Poi, è vero che le parole si troncano e siglano ma i puntini interrogativi e quelli esclamativi tendono all’accumulo e all’infinito………..(ecco, così, invece che tre) e anche certi slittamenti vocalici o quadruplicazioni consonantiche vanno in senso opposto. Quanto alla secchezza, la cooptazione di forestierismi e regionalismi, entrambi spesso italianizzati e dunque neologistici, restituisce una parte dell’espressività messa in crisi dalla riduzione del campo semantico (pochi vocaboli che ricorrono sempre, altri praticamente cessati) e in qualche modo induce all’ingegno creativo. E che dire, a proposito dell’economia, della quantità abnorme di messaggi che svolgono la famosa funzione fatica espressa da Roman Jakobson, cioè la comunicazione che funge da controllo del canale (Giusto? Ok? Ci sei?) e di quelli di contatto che manifestano la presenza adesiva del destinatario? (talora con gli sms risulta un’impresa improba interrompere la conversazione: A dopo/ Grazie/ Perfetto/Ok ecc.: è un connotato anche dello scambio di mail, che però sono certamente una categoria del linguaggio scritto). Infine, se è vero che le parole sono meno e meno approfondite (un ipotesto) è anche vero che le conversazioni, a parte l’ampio corredo iconico e grafico, conoscono un imprevedibile arricchimento mediatico nell’introduzione improvvisa di foto, audio, video e link (un ipertesto). Insomma, nonostante un’apparente deprivata automaticità, lo scriparlare risulta alquanto laborioso.

 

Il fenomeno, dunque, viene spesso un po’ banalizzato e reso forzosamente omogeneo (in pratica il difetto che di solito si imputa agli scriparlanti). Facciamo allora uno sforzo in più per capire quali siano falsi problemi e quali i profili effettivamente critici. Premettiamo però che la pretesa di una social-linguistica (senza nulla togliere al neologismo, molto bello, titolo del competentissimo volumetto scritto da Vera Ghemo per l’editore Franco Cesati) che sia buona per classificare insieme gli sms, le messaggerie istantanee, i post e i commenti su Facebook, lo scriparlare dei cinquantenni e quello dei diciottenni sarebbe molto velleitaria. Alcune usanze, anche solo degli over 40 (l’uso ricorrente della k, per dire, che era l’eco di contestazioni sociali) sono del tutto estranee ai millennials. E la ridondanza di emoticon è più presente negli “adultescenti” (che nel dubbio li infilano perché fa giovane) che non nelle ultimissime generazioni.

Torniamo ai problemi, e leggete qui: “tendenza alla semplificazione che ha fatto parlare di tendenza asintotica al monosillabismo (mix, out), economia di preposizioni e formazione di sintemi composti da sostantivi in rapporto di coordinazione (assicurazione vita, angolo cottura), accorciamento di locuzioni (pillola per pillola anticoncezionale), proliferazione di sigle abbreviative e derivati (CL per ciellino, P2 per piduista) …”. Un altro critico dell’e-taliano? No, il testo è stato scritto nel 1987da Ugo Cardinale (con il titolo che già dice tutto: “L’uso ha sempre ragione”) dentro una raccolta di scritti pubblicati da Laterza, “Dove va la lingua italiana”). Segno lampante che i device non hanno introdotto una cesura netta ma si sono mossi secondo una linea di continuità con tendenze già in corso (ovviamente le affordance e le proprietà degli strumenti digitali e dei software le hanno accelerate e magari esasperate).

Quella che alcuni consideravano una volgarizzazione del parlato da altri, più correttamente, veniva salutata con favore perché derivava da un allargamento dei parlanti, cioè dal fatto che molti italiani stavano abbandonando il dialetto come prima lingua o lo stavano contaminando con l’italiano. Il mutamento della lingua esprimeva una sua democratizzazione e non infliggeva una pena all’uso corretto: semplicemente imponeva alla lingua quel che è il suo destino, ovvero trasformarsi sotto la spinta di coloro che la parlano qualche volta in spregio alle indicazioni che fornirebbero i dizionari (e in questo modo avviano un rinnovamento che coinvolge la formazione di neologismi da parte degli intellettuali).

 

Oggi possiamo dire che il mutamento prosegue perché persone che mai si sarebbero sognate di scrivere lo fanno mediante lo smartphone. Sono pochi quelli che i telefonini hanno sottratto agli epistolari. E rimane nella natura della lingua che, se non gli strafalcioni, certe abiure alla tradizione la rendano “viva”.

Certo, non sono tutte ininfluenti. Non penso che sarà un dramma se l’uso determinasse (attenzione: qui dovevo scrivere determinerà. Ma ve ne eravate accorti?) la caduta dell’apostrofo dopo l’articolo indeterminativo prima della parola femminile che comincia con una vocale. A me il punto e virgola non dispiace (ma già, per dire, Kurt Vonnegut lo definiva un segno “vigliacco”) però ne troverei assurda la sopravvivenza dentro un testo scritto, tuttavia imparentato con l’oralità. Diverso è per la virgola, che in alcuni spostamenti cambia completamente il significato dell’enunciato. Riprendendo un vecchio, irresistibile esempio di Cesare Marchi, se sul tavolo del ministro arriva la missiva del sovrano riguardante un prigioniero che per errore invece che “Grazia, impossibile fucilarlo” riporta la frase: “Grazia impossibile, fucilarlo” è davvero un guaio.

 

Ecco, quell’oralità di ritorno che è il testo digitato rischia, specialmente quando praticata da ragazzi che non hanno mai esplorato la pratica del testo scritto puro nell’interazione, di diventare il testo scritto di domani. E questo sì che sarebbe un problema serio. Di più: l’indirizzo di buona parte della comunicazione verso il digitato appiattisce le competenze pragmatiche (cioè, con quale registro ci si debba esprimere nelle singole circostanze) e non basta un milione di emoticon per evitare che ciò crei disagio relazionale (già oggi, ad esempio, la bruschezza con cui avvengono comunicazioni di messaggeria per ragioni di lavoro sconfina malamente nell’inurbanità e affievolisce l’empatia).

 

Si vede qui come il vero pericolo sia insito non nello scriparlare preso in se stesso, ma nella supplenza cui esso viene chiamato per regolare situazioni che sarebbe più opportuno affrontare con la meditazione e la pianificazione di un testo scritto o con la franchezza responsabile di una conversazione orale.

Il maggior limite dello scriparlato è di odiare le subordinate, prediligendo il pensiero univerbale in luogo di quello universale (una volta, poi discuteremo del fatto che anche le scuole di scrittura hanno in uggia le subordinate…come prendersela dopo con gli scriparlanti?). Come una volta ho spiegato qui (in un testo inevitabilmente più complesso di altri e in effetti con un tasso di abbandono molto superiore alla media: ma se così non fosse stato ne sarebbe risultata smentita la tesi che conteneva…) la contrazione del linguaggio mediante l’eliminazione delle subordinate ci impedisce di comprendere quel che passa per la testa degli altri, e più in generale di apprendere contenuti complessi (non parliamo poi di formularli). Egualmente, certe parole viaggiano con il contenuto mentale o materiale che descrivono. Soppresse la prime, si dileguano anche i secondi. Non mi spaventa solo che molti non abbiano cognizione dell’80% dei vocaboli esistenti, ma anche la conseguenza che pure quelli che quei vocaboli li conoscono indugiano a usarli per il timore (non infondato) di essere incompresi e di condannare a morte il messaggio. In alcuni casi la semplicità corrisponde alla chiarezza. In altri all’omissione.   

 

Così, l’abbondanza di immagini che indirizza il linguaggio in senso visuale pare un’abdicazione alla complessità e alla concretezza della testualità. Forse non è una novità assoluta: “Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo esprimere le cose con le parole le vorremmo dipingere e rappresentare coi segni, come fanno i cinesi…cos’è questo se non tornare all’infanzia?” in fondo lo scriveva Giacomo Leopardi. Che tuttavia possedeva la dote della preveggenza (è incredibile quanto attuale sia rimasto lo Zibaldone), oltre alla capacità di conservare la chiarezza nel descrivere la complessità.

Di |2020-09-11T15:16:15+01:008 Giugno 2018|Web philosophy|

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